In una società
agricola come quella appena descritta, dedita
principalmente ai lavori nei campi, ecco un bel giorno
registrarsi le prime significative novità che nel corso
del decennio successivo daranno vita ad un primo impulso
di benessere alla misera condizione economica dei
contadini.
Prima di entrare nel tema, bisogna premettere che la gran
parte dei contadini sansalvesi non possedeva terreni di
proprietà. La gran massa di loro stavene
a sóccie
(lavoravano a mezzadria) o coltivavano in affitto i
terreni dell'Azienda D'Avalos, o
de la Pacelle ,
una nobildonna imparentata con i D'Avalos, in agro della
vicina Cupello.
Le terre erano in gran parte concentrate nelle mani di
grandi possidenti terrieri come Don Oreste Artese, Don
Gaetano de Vito,
donn’Antonie Ciavatte (Don
Antonio Ciavatta) o di altri signorotti del paese, come
Niculéne la vádeve (Nicola Artese, soprannominato la
vedova),
chelle de Don Pitre (la famiglia di Don
Pietro Artese) o Vito Monacelli, benestanti, che pur
possedendone quantità minori rispetto ai precedenti,
potevano vantare decine di ettari.
A quest'ultimi si aggiungeva una schiera di contadini che
possedeva piccoli appezzamenti di terreno di proprietà ed
infine vi erano i braccianti agricoli, gente che lavorava
in campagna
a jurnate (pagati a giornata), la cui
condizione economica era molto misera. Chi possedeva anche
mezzo ettaro di terra, rispetto a questi ultimi era ricco:
riusciva più o meno a mettere sotto i denti un tozzo di
pane, mentre i nulla tenenti vivevano in una condizione di
continuo disagio economico, che rasentava la fame.
Lavorare la terra era durissimo. Le stesse mogli dei
contadini lavoravano come bestie nei campi e per questo
motivo, le loro figlie femmine desideravano sposare un
artigiano, almeno così avrebbero evitato di sgobbare come
asine.
Nonostante gli anni '60 fossero alle porte, per molti
versi il mondo agricolo ricordava molto da vicino una
struttura medioevale della società. Giravano pochi soldi e
vigeva ancora "
lu staje" (staglio), una primitiva
forma di baratto/cambiale, con la quale la gran parte
della gente prometteva di pagare, dopo il raccolto, i
debiti contratti durante l'anno con il panettiere, il
barbiere, i proprietari di piccole "puteche" (negozietti)
e persino con i medici.
La situazione diveniva ancor più tragica a Maggio, quanto
era in agguato la cosiddetta
coste de maje (la
salita di maggio), che significava che le scorte di viveri
erano terminate e vi era da affrontare il mese di Maggio
in salita, senza nulla nella panca, in attesa dei nuovi
raccolti, sopratutto di grano.
Era stato questo il motivo scatenante d
e lu sciopere de
lu bosche, quando il 12 Marzo del ‘50, il popolo,
con una sommossa popolare organizzata principalmente dalla
locale sezione del Partito Comunista, a cui aderirono un
po’ tutti, aveva rivendicato il diritto alla terra,
occupando i terreni demaniali dell’ex Bosco Motticce,
rimasto spoglio di alberi, dopo che un battaglione di
fanteria, nel periodo bellico, li aveva recisi alla base
dei tronchi, per soddisfare il fabbisogno nazionale di
legname necessario per farvi le traverse dei binari
ferroviari.
L'esasperazione portò a tre giorni di lotte. Capeggiati da
Luigi Ruggeri, contadino, giovane comunista rampante, che
della giustizia sociale aveva fatto il suo cavallo di
battaglia, e da un altrettanto giovanissimo Mimì (Emidio)
Vicoli, socialista, un ex contadino che aveva studiato da
autoditatta e che a mio avviso era fine ideologo, capace
di trasformarsi all'occorrenza in uomo d'azione, la lotta,
contrastata dall'arrivo di centinaia di carabinieri, che
procedettero anche a retate tra i dimostranti, dopo
momenti di grande tensione, terminò allorquando il
deputato comunista Bruno Corbi, da Avezzano, si recò sul
posto, garantendo, alle forze dell'ordine, che a Roma, in
Parlamento, era stato deciso di procedere alla
sdemanializzazione delle terre occupate.
L'assegnazione di questi terreni in affitto, circa 180
ettari, avvenuta tra mille polemiche negli anni '57 - '58,
dopo la bonifica del sottobosco, diede sollievo a molte
famiglie meno abbienti del paese, e per ironia della
sorte, fu di competenza dell'amministrazione comunale
democristiana, che nel '56 aveva scalzato i
social-comunisti dal Comune, in carica nel decennio
precedente.
Sansalvesi impegnati nel
disbocamento
Naturalmente vi furono degli scontenti, delusi dalla
mancata assegnazione di queste terre, ma la lotta portò
sicuramente benefici alla condizione economica di molte
famiglie, che intravidero in quei terreni dei primi
barlumi di speranza per il futuro.
Con il paese arricchito di queste nuove terre, il resto
del mondo agricolo, riprese la vita di sempre, con le
solite colture, che nonostante l'arrivo dei primi
trattori, richiedevano lavori manuali estenuanti e lacrime
di sudore.
I contadini sansalvesi coltivavano di tutto, dal grano al
mais, dagli ortaggi alla frutta, le olive e naturalmente
l'uva.
"
Chi te’ la vegne te’ la tegne, chi vegne ne te’ tegne
te’ ” (Chi ha la vigna ha la tigna, ma chi vigna non
ha la tigna ha), mi disse un giorno il mio amico
Fioravante D’Acciaro, sociologo e storico contadino, a
significare che chi aveva la vigna aveva un grosso guaio
per coltivarla, ma chi non l’aveva, passava guai maggiori
a causa della fame e della poverta.
E ne sapeva qualcosa anche
Ze Dumeneche de
Defeleppantonie (Domenico Di Filippantonio), che
come racconta sempre Fioravante D'Acciaro in un mio video,
in una giornata caldissima ed interminabile di giugno,
quando il sole pare non calare mai, mentre stava
arranna'
la vigna di un signorotto, così se ne uscì,
sconsolato:"
Uéje Giusucréste me! Vattel'artrúve
che t'accése, ca je' 'ntaje fatte niente! Anze je' 'nte
manghe canàscie!" (Ehi Gesu Cristo mio! Vai a
cercarti chi ti ha ucciso perchè io non ti ho fatto
niente. Anzi io non ti manco conosco).
La coltivazione dei vigneti all’epoca era davvero
tignàuse
(problematica).
A parte il fatto che le vigne negli anni ‘50 erano tutte a
filari a terra, e non ancora si cominciava a
mpalca’
la capanne (ad innalzare i capanneti) con paletti
di cemento prefabbricati, era davvero
tignàuse
coltivare un vigneto e non solo perchè a Giugno, sotto un
sole cocente,
z’aveva arannà la vegne, cioè
disinfestare dalle erbaccie le viti, zappandole
tutt’intorno
nghe nu zappenàtte (con una piccola
zappa), ma sopratutto perché il vero problema sorgeva per
i contadini nei giorni della vendemmia, quando tolta una
quantità d’uva per farne il vino per la propria botte,
iniziavano le contrattazioni per la vendita delle uve.
La difficoltà non derivava dal fatto che non si sapessero
fare bene i conti.
A la femmenèle ha da veda' gna javéne (alla
femminile sapevano fare benissimo i conti - modo di dire
quando una persona fa i conti a mente), ma la vera
disdetta era avere a che fare con i compratori d'uva,
spesso rappresentati da
ssanzène (procacciatori
di affari, intermediari), anche locali, che speculavano
cercando di sottopagarla, contrattando ed offrendo prezzi
diversi, a seconda delle capacità contrattuali dei singoli
contadini.
Fu allora che alcuni lungimiranti uomini di sinistra
ebbero un'idea geniale.
Perchè non costituire una cooperativa?
Tra i promotori non potevano mancare Mimì Vicoli, che a
detta di molti ne fu il vero ispiratore, e Luigi Ruggieri
, entrambi già tra gli artefici principali
de lu
sciopere de lu bosche, i quali forse ispirati dalle
cooperative rosse dell’Emilia e Romagna, che in Italia era
ammirata sopratutto dai comunisti al pari dell’URSS in
campo internazionale, si adoperarono in ogni modo affinchè
questa nuova creatura venisse alla luce.
Era l'anno ’58, quando la neonata cooperativa, costituita
all’origine da una trentina di soci, acquistò a
chelle
de Currade (dalla famiglia Corrado), un pezzo di
terra
a lu Vurriccie (attuale zona di Via
Gargheta), e vi edificarono uno stabile adibito a cantina
sociale. Nominarono come presidente Domenico Ialacci,
contadino.
La chiamarono Cantina Sociale San Salvo.
Firma degli atti per la
costituzione della Cantina Sociale San Salvo.
La costituzione di questa cantina sociale fu una vera
innovazione all'epoca per il mondo contadino.
Vi è da dire che a San Salvo all'epoca non è che
mancassero le cantine: vi erano quelle private di
Labrozze,
de do' Ureste Sabbatene,
de
Masante, ma una cantina sociale gestita direttamente
dagli stessi contadini fu un'idea che rappresentò un
grosso passo avanti nel mondo della viticultura e della
stessa agricoltura.
Producevano principalmente il mosto, che poi veniva
venduto a case vinicole.
Naturalmente la cantina sociale aveva dichiaratamente un
colore politico rosso, più rosso dei mosti che produceva e
perciò venne chiamata dai sansalvesi
la cantene de le
riscie (la cantina dei comunisti).
La controreplica
de li bienghe (dei democristiani)
non si fece attendere.
Eravamo nel ’ 61 quando un gruppo di contadini
democristiani, acquistò in Via Traversa Interna, il
vecchio stabile dove vi era stato
lu trappete de
Ciuvuatte (il frantoio di Civetta, soprannome di un
ex proprietario vastese) e vi impiantarono la loro
cantina, che chiamarono Cantina Sociale San Vitale, in
onore del santo protettore del paese ed in linea con la
politica cattolica del loro partito. Fu nominato
presidente Vitale Torricella, il padre di
Nucénte
(Innocenzo).
Soci della cantina San
Vitale. Al centro nella foto Vitale Artese.
Ovviamente, nonostante entrambe producessero dell'ottimo
mosto per vini rosso e bianco, entrarono subito in
concorrenza, cercando di superarsi a vicenda, in stile
guerra fredda, in auge fortemente a quei tempi tra gli
americani ed i sovietici.
Ma era meglio l'una o l'altra?
Dipendeva dai punti di vista e dal colore politico. Come
già detto, era da pochi anni che la D.C. aveva conquistato
il Comune (1956), dopo un decennio di amministrazione
social comunista, e quest'ultimi, cioè i compagni,
vivevano il momento, al di là della grande soddisfazione
per essere stati i primi a realizzare una cantina sociale,
come una rivincita, una dimostrazione al popolo
sansalvese, delle loro capacità politiche ed
imprenditoriali.
I democristiani dal canto loro, contavano molto
sull'appoggio del Sindaco Vitale Artese, il quale in
gioventù era stato anch'egli
nu ssanzane (un
intermediario) nella vendite dell'uva, e facevano
affidamento sulla sua esperienza nel settore e sopratutto
nella sua influenza politica, a livello provinciale e
regionale, per fare affari d'oro con affermate case
vinicole.
Una cosa comunque era certa. La cantina
de le riscie
era molto più facile da raggiungere durante la raccolta
dell'uva.
La scelta di acquistare il vecchio stabile
de lu
trappete de Ciuvuàtte, come ebbe a dirmi il compagno
Fioravante D’Acciaro, comunista, non era proprio
funzionale: era meglio quella dei rossi. I contadini che
andavano a scaricare
nghe le trajéne (con i
carretti) l’uva dalle campagne, ubicate quasi tutte lungo
la piana del Trigno, arrivati
a lu Vurriccie,
avévene
arruvuite (erano arrivati alla cantina), mentre i
bianchi
z’avevana ammulla’ (dovevano percorrere
con difficoltà) tutta la salita da
lu Vurriccie sino
a Via Roma dove la strada spianava, tra l'altro trafficata
perchè era un tratto di nazionale, sfiancando i cavalli,
muli ed asini, che
sdillettévene (scivolavano)
durante l'ascesa, con i ferri degli zoccoli che facevano
scintille sull'asfalto, mentre trainavano i carretti
carichi di quintali d'uva.
Non mancarono, com'era prevedibile, gli sfotto tra i due
gruppi. I comunisti, che definivano i democristiani
mizzecazzàtte, cioè persone che si sentivano
importanti, ma non lo erano, essendo ammanicati al potere,
li sfottevano dicendo in giro che riempivano quelle poche
bottiglie di vino destinate alla vendita diretta
nghe
lu cuppene e lu muttàlle (con il mestolo e l'imbuto)
, nel senso che erano disorganizzati. I democristiani, o
qualcuno un po' invidioso, ci andarono giù un po' più
pesante, mettendo in giro la voce che durante la pigiatura
dell'uva, che avveniva a quei tempi ancora a piedi nudi
nei tini, qualcuno ci orinasse dentro, denigrando
ironicamente la qualità e la purezza dei mosti.
Scherzi a parte, entrambe le cantine, producevano, com'era
nella tradizione vinicola sansalvese, mosti di alta
qualità.
Con le cantine sociali, arrivarono i primordiali Consigli
di Amministrazione e siccome la condizione culturale era
quel che era, arrivarono anche i primi ragionieri da
fuori, sopratutto alla cantina
de le bienghe, in
quanto in quella
de le riscie (dei rossi) il posto
venne assegnato a Mimì Vicoli. (Prima di allora la figura
del ragioniere era pressoché sconosciuta. La gente
ragionava da sola ed i calcoli li faceva
a la
femmenéle (con la mente), non sbagliando di un
centesimo.
Sicuramente l'arrivo di queste prime cantine sociali
determinò un primo passo in avanti nel mondo dell'
agricoltura locale.
Fu il punto di partenza verso un mutamento del modo di
concepire l'agricoltura in sintonia con tutto il mondo
circostante che stava mutando.
Negli anni successivi altra grande risorsa divenne la
coltivazione della barbiatetola da zucchero, che aveva il
suo punto di raccolta alla vecchia stazione ferroviaria,
da dove veniva caricata su vagoni merci e spedita ad uno
zuccherificio di Chieti. Poi fu la volta
de le
scarciofene (la coltivazione dei carciofi), per
giungere
a le pricoche (ai pescheti), ma quella
era già tutt’altra storia.
In una società contadina, più o meno come quella
sopradescritta, per certi versi simile a quella di tutti
gli altri piccoli paesi del comprensorio, ecco un bel
giorno accadere qualcosa a cui nessuno pensava, che
avrebbe stravolto, nel volgere di qualche decennio, per
sempre il volto e l'economia della nostra piccola
cittadina.
NOTA
Nel dopoguerra, l'area socialista, nonostante
annoverasse tra le sue fila persone illustri come
Domenico Cervone (PSDI), falegname, Sindaco di San Salvo
dal 1948 al 1956, Don Secondino Artese, padre del futuro
Sindaco e deputato democristiano On.le Vitale Artese,
rimasto alla storia per essere stato tra i primi
imprenditori della corrente elettrica locale, ed altri
ferventi socialisti tra cui Pasquale Nicola Cilli, di
professione sarto, il quale negli anni '80 donò il piano
terra della sua casa al PSI, rappresentava un' esigua
minoranza rispetto all'elettorato comunista. Il P.S.I.
era avversato, nonostante una parvente collaborazione,
principalmente proprio dai comunisti i quali sovente
erano diffidenti nei loro confronti, ponendoli spesso in
uno stato di isolamento politico. Da quel che si
racconta, pare che i comunisti avessero addirittura
degli infiltrati nella locale sezione del P.S.I., in
modo da conoscere in anticipo ogni loro mossa ed
iniziativa politica. Mimì Vicoli, giovane emergente del
Partito Socialista Italiano, con incarichi di partito
anche a livello provinciale, visse sulla propria pelle
questo silente contrasto con i cugini comunisti, che da
un lato, essendo antidemocristiano, lo osannavano per le
sue innate capacità politiche ed organizzative e dall'
altro lo contrastavano, temendo di perdere consensi
elettorali. La dimostrazione divenne eclatante quando
Mimì Vicoli venne candidato dal PSI alla Provincia, ma i
compagni comunisti non lo votarono, preferendo non
appoggiare un loro compaesano, ma il candidato del loro
partito. Era ed è il destino dei socialisti di ieri e di
oggi, ed un po' di tutta la sinistra, come tutta la
storia del socialismo italiano antico e moderno insegna.