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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I forestieri a San Salvo

di Fernando Sparvieri

Un po' di storia locale raccontando personaggi







Capitolo XXX


LU SCIOPERE DE LU BOSCHE

E LA NASCITA DELLE CANTINE SOCIALI

In una società agricola come quella appena descritta, dedita principalmente ai lavori nei campi, ecco un bel giorno registrarsi le prime significative novità che nel corso del decennio successivo daranno vita ad un primo impulso di benessere alla misera condizione economica dei contadini.

Prima di entrare nel tema, bisogna premettere che la gran parte dei contadini sansalvesi non possedeva terreni di proprietà. La gran massa di loro stavene a sóccie (lavoravano a mezzadria) o coltivavano in affitto i terreni dell'Azienda D'Avalos, o de la Pacelle , una nobildonna imparentata con i D'Avalos, in agro della vicina Cupello.

Le terre erano in gran parte concentrate nelle mani di grandi possidenti terrieri come Don Oreste Artese, Don Gaetano de Vito, donn’Antonie Ciavatte (Don Antonio Ciavatta) o di altri signorotti del paese, come Niculéne la vádeve (Nicola Artese, soprannominato la vedova), chelle de Don Pitre (la famiglia di Don Pietro Artese) o Vito Monacelli, benestanti, che pur possedendone quantità minori rispetto ai precedenti, potevano vantare decine di ettari.

A quest'ultimi si aggiungeva una schiera di contadini che possedeva piccoli appezzamenti di terreno di proprietà ed infine vi erano i braccianti agricoli, gente che lavorava in campagna a jurnate (pagati a giornata), la cui condizione economica era molto misera. Chi possedeva anche mezzo ettaro di terra, rispetto a questi ultimi era ricco: riusciva più o meno a mettere sotto i denti un tozzo di pane, mentre i nulla tenenti vivevano in una condizione di continuo disagio economico, che rasentava la fame.

Lavorare la terra era durissimo. Le stesse mogli dei contadini lavoravano come bestie nei campi e per questo motivo, le loro figlie femmine desideravano sposare un artigiano, almeno così avrebbero evitato di sgobbare come asine.

Nonostante gli anni '60 fossero alle porte, per molti versi il mondo agricolo ricordava molto da vicino una struttura medioevale della società. Giravano pochi soldi e vigeva ancora "lu staje" (staglio), una primitiva forma di baratto/cambiale, con la quale la gran parte della gente prometteva di pagare, dopo il raccolto, i debiti contratti durante l'anno con il panettiere, il barbiere, i proprietari di piccole "puteche" (negozietti) e persino con i medici.

La situazione diveniva ancor più tragica a Maggio, quanto era in agguato la cosiddetta coste de maje (la salita di maggio), che significava che le scorte di viveri erano terminate e vi era da affrontare il mese di Maggio in salita, senza nulla nella panca, in attesa dei nuovi raccolti, sopratutto di grano.

Era stato questo il motivo scatenante de lu sciopere de lu bosche, quando il 12 Marzo del ‘50, il popolo, con una sommossa popolare organizzata principalmente dalla locale sezione del Partito Comunista, a cui aderirono un po’ tutti, aveva rivendicato il diritto alla terra, occupando i terreni demaniali dell’ex Bosco Motticce, rimasto spoglio di alberi, dopo che un battaglione di fanteria, nel periodo bellico, li aveva recisi alla base dei tronchi, per soddisfare il fabbisogno nazionale di legname necessario per farvi le traverse dei binari ferroviari.

L'esasperazione portò a tre giorni di lotte. Capeggiati da Luigi Ruggeri, contadino, giovane comunista rampante, che della giustizia sociale aveva fatto il suo cavallo di battaglia, e da un altrettanto giovanissimo Mimì (Emidio) Vicoli, socialista, un ex contadino che aveva studiato da autoditatta e che a mio avviso era fine ideologo, capace di trasformarsi all'occorrenza in uomo d'azione, la lotta, contrastata dall'arrivo di centinaia di carabinieri, che procedettero anche a retate tra i dimostranti, dopo momenti di grande tensione, terminò allorquando il deputato comunista Bruno Corbi, da Avezzano, si recò sul posto, garantendo, alle forze dell'ordine, che a Roma, in Parlamento, era stato deciso di procedere alla sdemanializzazione delle terre occupate.

L'assegnazione di questi terreni in affitto, circa 180 ettari, avvenuta tra mille polemiche negli anni '57 - '58, dopo la bonifica del sottobosco, diede sollievo a molte famiglie meno abbienti del paese, e per ironia della sorte, fu di competenza dell'amministrazione comunale democristiana, che nel '56 aveva scalzato i social-comunisti dal Comune, in carica nel decennio precedente.

Sansalvesi impegnati nel disbocamento


Naturalmente vi furono degli scontenti, delusi dalla mancata assegnazione di queste terre, ma la lotta portò sicuramente benefici alla condizione economica di molte famiglie, che intravidero in quei terreni dei primi barlumi di speranza per il futuro.

Con il paese arricchito di queste nuove terre, il resto del mondo agricolo, riprese la vita di sempre, con le solite colture, che nonostante l'arrivo dei primi trattori, richiedevano lavori manuali estenuanti e lacrime di sudore.

I contadini sansalvesi coltivavano di tutto, dal grano al mais, dagli ortaggi alla frutta, le olive e naturalmente l'uva.

"Chi te’ la vegne te’ la tegne, chi vegne ne te’ tegne te’ ” (Chi ha la vigna ha la tigna, ma chi vigna non ha la tigna ha), mi disse un giorno il mio amico Fioravante D’Acciaro, sociologo e storico contadino, a significare che chi aveva la vigna aveva un grosso guaio per coltivarla, ma chi non l’aveva, passava guai maggiori a causa della fame e della poverta.

E ne sapeva qualcosa anche Ze Dumeneche de Defeleppantonie (Domenico Di Filippantonio), che come racconta sempre Fioravante D'Acciaro in un mio video, in una giornata caldissima ed interminabile di giugno, quando il sole pare non calare mai, mentre stava arranna' la vigna di un signorotto, così se ne uscì, sconsolato:"Uéje Giusucréste me! Vattel'artrúve che t'accése, ca je' 'ntaje fatte niente! Anze je' 'nte manghe canàscie!" (Ehi Gesu Cristo mio! Vai a cercarti chi ti ha ucciso perchè io non ti ho fatto niente. Anzi io non ti manco conosco).

La coltivazione dei vigneti all’epoca era davvero tignàuse (problematica).

A parte il fatto che le vigne negli anni ‘50 erano tutte a filari a terra, e non ancora si cominciava a mpalca’ la capanne (ad innalzare i capanneti) con paletti di cemento prefabbricati, era davvero tignàuse coltivare un vigneto e non solo perchè a Giugno, sotto un sole cocente, z’aveva arannà la vegne, cioè disinfestare dalle erbaccie le viti, zappandole tutt’intorno nghe nu zappenàtte (con una piccola zappa), ma sopratutto perché il vero problema sorgeva per i contadini nei giorni della vendemmia, quando tolta una quantità d’uva per farne il vino per la propria botte, iniziavano le contrattazioni per la vendita delle uve.

La difficoltà non derivava dal fatto che non si sapessero fare bene i conti.

A la femmenèle ha da veda' gna javéne (alla femminile sapevano fare benissimo i conti - modo di dire quando una persona fa i conti a mente), ma la vera disdetta era avere a che fare con i compratori d'uva, spesso rappresentati da ssanzène (procacciatori di affari, intermediari), anche locali, che speculavano cercando di sottopagarla, contrattando ed offrendo prezzi diversi, a seconda delle capacità contrattuali dei singoli contadini.

Fu allora che alcuni lungimiranti uomini di sinistra ebbero un'idea geniale.

Perchè non costituire una cooperativa?

Tra i promotori non potevano mancare Mimì Vicoli, che a detta di molti ne fu il vero ispiratore, e Luigi Ruggieri , entrambi già tra gli artefici principali de lu sciopere de lu bosche, i quali forse ispirati dalle cooperative rosse dell’Emilia e Romagna, che in Italia era ammirata sopratutto dai comunisti al pari dell’URSS in campo internazionale, si adoperarono in ogni modo affinchè questa nuova creatura venisse alla luce. 

Era l'anno ’58, quando la neonata cooperativa, costituita all’origine da una trentina di soci, acquistò a chelle de Currade (dalla famiglia Corrado), un pezzo di terra a lu Vurriccie (attuale zona di Via Gargheta), e vi edificarono uno stabile adibito a cantina sociale. Nominarono come presidente Domenico Ialacci, contadino.

La chiamarono Cantina Sociale San Salvo.

Firma degli atti per la costituzione della Cantina Sociale San Salvo.


La costituzione di questa cantina sociale fu una vera innovazione all'epoca per il mondo contadino.

Vi è da dire che a San Salvo all'epoca non è che mancassero le cantine: vi erano quelle private di Labrozze, de do' Ureste Sabbatene, de Masante, ma una cantina sociale gestita direttamente dagli stessi contadini fu un'idea che rappresentò un grosso passo avanti nel mondo della viticultura e della stessa agricoltura.

Producevano principalmente il mosto, che poi veniva venduto a case vinicole.

Naturalmente la cantina sociale aveva dichiaratamente un colore politico rosso, più rosso dei mosti che produceva e perciò venne chiamata dai sansalvesi la cantene de le riscie (la cantina dei comunisti).

La controreplica de li bienghe (dei democristiani) non si fece attendere.

Eravamo nel ’ 61 quando un gruppo di contadini democristiani, acquistò in Via Traversa Interna, il vecchio stabile dove vi era stato lu trappete de Ciuvuatte (il frantoio di Civetta, soprannome di un ex proprietario vastese) e vi impiantarono la loro cantina, che chiamarono Cantina Sociale San Vitale, in onore del santo protettore del paese ed in linea con la politica cattolica del loro partito. Fu nominato presidente Vitale Torricella, il padre di Nucénte (Innocenzo).

Soci della cantina San Vitale. Al centro nella foto Vitale Artese.


Ovviamente, nonostante entrambe producessero dell'ottimo mosto per vini rosso e bianco, entrarono subito in concorrenza, cercando di superarsi a vicenda, in stile guerra fredda, in auge fortemente a quei tempi tra gli americani ed i sovietici.

Ma era meglio l'una o l'altra?

Dipendeva dai punti di vista e dal colore politico. Come già detto, era da pochi anni che la D.C. aveva conquistato il Comune (1956), dopo un decennio di amministrazione social comunista, e quest'ultimi, cioè i compagni, vivevano il momento, al di là della grande soddisfazione per essere stati i primi a realizzare una cantina sociale, come una rivincita, una dimostrazione al popolo sansalvese, delle loro capacità politiche ed imprenditoriali.

I democristiani dal canto loro, contavano molto sull'appoggio del Sindaco Vitale Artese, il quale in gioventù era stato anch'egli nu ssanzane (un intermediario) nella vendite dell'uva, e facevano affidamento sulla sua esperienza nel settore e sopratutto nella sua influenza politica, a livello provinciale e regionale, per fare affari d'oro con affermate case vinicole.

Una cosa comunque era certa. La cantina de le riscie era molto più facile da raggiungere durante la raccolta dell'uva.

La scelta di acquistare il vecchio stabile de lu trappete de Ciuvuàtte, come ebbe a dirmi il compagno Fioravante D’Acciaro, comunista, non era proprio funzionale: era meglio quella dei rossi. I contadini che andavano a scaricare nghe le trajéne (con i carretti) l’uva dalle campagne, ubicate quasi tutte lungo la piana del Trigno, arrivati a lu Vurriccie, avévene arruvuite (erano arrivati alla cantina), mentre i bianchi z’avevana ammulla’ (dovevano percorrere con difficoltà) tutta la salita da lu Vurriccie sino a Via Roma dove la strada spianava, tra l'altro trafficata perchè era un tratto di nazionale, sfiancando i cavalli, muli ed asini, che sdillettévene (scivolavano) durante l'ascesa, con i ferri degli zoccoli che facevano scintille sull'asfalto, mentre trainavano i carretti carichi di quintali d'uva.

Non mancarono, com'era prevedibile, gli sfotto tra i due gruppi. I comunisti, che definivano i democristiani mizzecazzàtte, cioè persone che si sentivano importanti, ma non lo erano, essendo ammanicati al potere, li sfottevano dicendo in giro che riempivano quelle poche bottiglie di vino destinate alla vendita diretta nghe lu cuppene e lu muttàlle (con il mestolo e l'imbuto) , nel senso che erano disorganizzati. I democristiani, o qualcuno un po' invidioso, ci andarono giù un po' più pesante, mettendo in giro la voce che durante la pigiatura dell'uva, che avveniva a quei tempi ancora a piedi nudi nei tini, qualcuno ci orinasse dentro, denigrando ironicamente la qualità e la purezza dei mosti.

Scherzi a parte, entrambe le cantine, producevano, com'era nella tradizione vinicola sansalvese, mosti di alta qualità.

Con le cantine sociali, arrivarono i primordiali Consigli di Amministrazione e siccome la condizione culturale era quel che era, arrivarono anche i primi ragionieri da fuori, sopratutto alla cantina de le bienghe, in quanto in quella de le riscie (dei rossi) il posto venne assegnato a Mimì Vicoli. (Prima di allora la figura del ragioniere era pressoché sconosciuta. La gente ragionava da sola ed i calcoli li faceva a la femmenéle (con la mente), non sbagliando di un centesimo.

Sicuramente l'arrivo di queste prime cantine sociali determinò un primo passo in avanti nel mondo dell' agricoltura locale.

Fu il punto di partenza verso un mutamento del modo di concepire l'agricoltura in sintonia con tutto il mondo circostante che stava mutando.

Negli anni successivi altra grande risorsa divenne la coltivazione della barbiatetola da zucchero, che aveva il suo punto di raccolta alla vecchia stazione ferroviaria, da dove veniva caricata su vagoni merci e spedita ad uno zuccherificio di Chieti. Poi fu la volta de le scarciofene (la coltivazione dei carciofi), per giungere a le pricoche (ai pescheti), ma quella era già tutt’altra storia.

In una società contadina, più o meno come quella sopradescritta, per certi versi simile a quella di tutti gli altri piccoli paesi del comprensorio, ecco un bel giorno accadere qualcosa a cui nessuno pensava, che avrebbe stravolto, nel volgere di qualche decennio, per sempre il volto e l'economia della nostra piccola cittadina.


NOTA

Nel dopoguerra, l'area socialista, nonostante annoverasse tra le sue fila persone illustri come Domenico Cervone (PSDI), falegname, Sindaco di San Salvo dal 1948 al 1956, Don Secondino Artese, padre del futuro Sindaco e deputato democristiano On.le Vitale Artese, rimasto alla storia per essere stato tra i primi imprenditori della corrente elettrica locale, ed altri ferventi socialisti tra cui Pasquale Nicola Cilli, di professione sarto, il quale negli anni '80 donò il piano terra della sua casa al PSI, rappresentava un' esigua minoranza rispetto all'elettorato comunista. Il P.S.I. era avversato, nonostante una parvente collaborazione, principalmente proprio dai comunisti i quali sovente erano diffidenti nei loro confronti, ponendoli spesso in uno stato di isolamento politico. Da quel che si racconta, pare che i comunisti avessero addirittura degli infiltrati nella locale sezione del P.S.I., in modo da conoscere in anticipo ogni loro mossa ed iniziativa politica. Mimì Vicoli, giovane emergente del Partito Socialista Italiano, con incarichi di partito anche a livello provinciale, visse sulla propria pelle questo silente contrasto con i cugini comunisti, che da un lato, essendo antidemocristiano, lo osannavano per le sue innate capacità politiche ed organizzative e dall' altro lo contrastavano, temendo di perdere consensi elettorali. La dimostrazione divenne eclatante quando Mimì Vicoli venne candidato dal PSI alla Provincia, ma i compagni comunisti non lo votarono, preferendo non appoggiare un loro compaesano, ma il candidato del loro partito. Era ed è il destino dei socialisti di ieri e di oggi, ed un po' di tutta la sinistra, come tutta la storia del socialismo italiano antico e moderno insegna.

pag.30

dietro/avanti


Un libro sul web

MA CHI SAREBBERO

LI SALVANESE

I forestieri a San Salvo

INDICE


Capitolo I
Introduzione
I maestri di scuola



Capitolo II
I carabinieri
e Nonsaccie




Capitolo III
da Gerardo D'Aloisio
a Luegge Capaùne




Capitolo IV
Lu camie de Masciulle
(Il camion di Masciulli)




Capitolo V
Giovanni Bassi
e Valentini Bassi Venturini




Capitolo VI
Vincenzo Larcinese




Capitolo VII
Ninuccie
lu panattire




Capitolo VIII
Lu macillare
de Lentelle




Capitolo IX
Nine
lu napuletane




Capitolo X
Franche lu 'nfurmire




Capitolo XI
Quei matrimoni d'altri tempi -
La bella farmacista ed Erpinio Labrozzi




Capitolo XII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIV
Erpinio Labrozzi e Maria Iole Di Nardo




Capitolo XV
(Fine prima Parte)


Capitolo XVI
Lu 'ngiugnìre
Tommaso Papi



Capitolo XVII
La famiglia Ricca




Capitolo XVIII
la crisi degli artigiani




Capitolo XIX
Lu motore
de le casuléne




Capitolo XX
Di Virgilio Nicola
la léma sàrde




Capitolo XXI
Lu camie
de Tinarìlle




Capitolo XXII
Angelo Di Biase
(Biascille)


Capitolo XXIII
Li carrettire
diventano camionis




Capitolo XXIV
Lu Jumme
ed il pastificio de mastre Camélle e Marchàtte




Capitolo XXV
Adelme, Gelarde e Micchéle Cillène




Capitolo XXVI
Li trajene
e la nazionale





Capitolo XXVII
La nazionale
ed il dialetto




Capitolo XXVIII
Li frastire
ed i venditori ambulanti




Capitolo XXIX
Quando la gente
parlava con gli animali




Capitolo XXX
Lu sciopere
de lu bosche
e le cantine sociali




Capitolo XXXI
La scoperta
del metano




Capitolo XXXII
La Brede (la SIV)





Capitolo XXXIII
La nascita
della Villa Comunale




Capitolo XXXIV
LA SIV
L'accensione
del 1° forno




Capitolo XXXV
Giorgio la Rocca
(lu rumuane)




Capitolo XXXVI
L'on. Aldo Moro
a San Salvo




Capitolo XXXVII
La fabbreche de le tavelàlle




Capitolo XXXVIII
Il profumo
del progresso




Capitolo XXXIX
La sirena
e le frasterézze




Capitolo XL
Il trofeo
San Rocco




Capitolo XLI
Pasquale Spinelli



Capitolo XLII
Umberto Agnelli
a SanSalvo




Capitolo XLIII
Scandalo al sole




Capitolo XLIV
Ma chi sarebbero
li salvanése