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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I forestieri a San Salvo

di Fernando Sparvieri

Un po' di storia locale raccontando personaggi







Capitolo XXIX

QUANDO LA GENTE

PARLAVA CON GLI ANIMALI



Dipinto di Ergilio Monaco


Ed a proposito di cani veri, a quei tempi non è che se la passassero poi tanto bene.

Era dura per loro la vita. Facevano, come si suol dire, davvero una vita da cani, nel vero senso delle parole.

Quasi tutti secche gne’ le chene (magri come cani), venivano presi a zàvàrre (a pietrate) dai ragazzi ed erano spesso oggetto anche di scherzi da parte di buontemponi. Ricordo una mattino sfrecciarne uno di gran carriera in Via Savoia. Gli avevano legato nu stágne a la càute (un barattolo di latta alla coda) e per lo spavento correva come un forsennato, spaventatissimo dal frastuono del barattolo inseguitore, che nonostante la sua folle corsa, restava sempre lì, a portata di coda.

Ma il fatto più singolare è che la gente ci parlava pure con i cani ed un po' con tutti gli animali domestici, da cortile e da lavoro. Naturalmente non con lo spirito francescano del Santo di Assisi, ma riusciva a farsi capire.

Era una società principalmente contadina quella ed era una necessità scambiare con loro qualche sillaba e qualche vocale.

Per far avvicinare un cane, ad esempio, gli si diceva “te’ te’ zu’ zu’ ”; per farlo allontanare “marciallà"; per farlo avventare contro qualcuno “vulè, cià vulè”. Il cane, quando ciò accadeva, spesso aizzato per scherzo dal padrone, ringhiava minaccioso verso il malcapitato, il quale restava fermo sui suoi passi ed un po' impaurito diceva al proprietario: “Ue’! Archiame quasse!” (richiama il tuo cane).

Discorsi un po' più complicati invece avvenivano nghe le chéne de massare' (con i cani di masseria, da guardia). Appena vedevano qualcuno nei pressi della masseria abbaiavano e ringhiavano come belve feroci e se non c'era il padrone nelle vicinanze, era inutile dirgli marciallà. La prima soluzione che saltava in mente, ma non era consigliabile, era di prendere 'na zavàrre (una pietra) e tirargliela, ma se non funzionava erano cavoli amari: o ci si dava a le cacchiàdre (alla fuga), ma era meglio non farlo, o ci si arrampicava su un albero, se fortunatamente ve n'era qualcuno nelle vicinanze. Il timore era che il cane ze putàve ammena' (si poteva avventare) e arpezza' le cósse (e mordere ai polpacci).

Per i gatti invece il linguaggio era un po’ più ridotto, ma non per questo meno efficace. Per chiamarlo o accarezzarlo gli si diceva “muscie muscie” (vieni, vieni che c'è un topo), probabile derivazione dall'inglese mouse; per farlo fuggire, invece, specie quando combinava qualche ssadatte (qualcosa che non doveva fare), gli si gridava con tono di voce adirata “fristquà”.

In quasi ogni casa vi era un gatto. Non lo si teneva come oggi in salotto, con tante coccole. Il suo compito era unicamente quello d'acchiappa' (di catturare) i topi, che nelle case abbondavano. Non tutti i gatti però avevano questa capacità, molto dipendeva anche dalla fame. " 'Ssa hatte è surgiagne" (è un gatto bravo a prendere i topi), si diceva quando uno di essi svolgeva egregiamente il suo dovere. "Quesse è surgiàgne", divenne anche un modo di dire tra persone, per indicare qualcuno che non era fesso e riusciva bene nel suo scopo.

Come già detto, per indurre le bistie (asini, cavalli, e muli) a camminare, la vocale d’ordine era “ahhhh”; per farli fermare “ihhhh”. “Tocche tocche” per farli procedere dritti, senza tentennamenti. Era altra musica, invece, nel senso che si fischiava, quando si conduceva uno di essi alla vecchia fontana per farli abbeverare. All’animale, per invogliarlo ad abbeverarsi, gli si fischiava fuì fuì fuì, due tre volte consecutivamente ed a volte anche durante l’abbeveramento, per non farlo smettere. Da qui nasce il detto popolare dialettale che dice: “Canda l’asene vo’ bbàve, ‘nci fa bbesugne ca j cìffule (quando l’asino ha sete non c’è bisogno di fischiargli), a significare che quando una persona ha intenzione di fare qualcosa non c’è bisogno di sprone. Era un’offesa, invece, simulare lo stesso fischio mentre una persona si dissetava bevendo da una bottiglia o da nu trìffule (otre in terracotta): "Ue’! E’che so’ n’asene je!’”, rispondeva quasi sempre con aria adirata chi aveva scarso senso dell’humor.

Linguaggio più semplice, ma non per questo meno efficace, era quello con le galline. Per destare la loro attenzione le dicevano “pìpì pipì” , che ripetuto più volte “pìpìpìpìpìpì”, significava richiamare in adunata l’intero pollaio. Quando si dava loro da mangiare si diceva véccie véccie, mentre per farle rientrare nel pollaio l'ordine perentorio era scio’ scio’ che le donne, impartivano nghe ‘na granare (con una scopa) in mano, oppure agitando 'na mandìre (grembiule, pettorale da cucina), così chiamata perchè ammánde (copre).

Anche con i maiali vi erano intrecci di sillabe incomprensibili, ma appropriati. Per farli spostare o andare via si diceva loro terrcua' terrcua' (forse tirati di qua) e per invitarli a mangiare a lu trócche (al trogolo) chrì chrì. Più o meno stesso liguaggio con le capre: zrì zrì e l'animale si avvicinava.

Poi, naturalmente vi erano anche animali domestici a cui era d'obbligo dare un nome. Erano i cani ed i buoi. Tra i cani il nome più diffuso era sin da allora Fido, anche se ognuno poteva sbizzarrisi come voleva, mentre per i buoi, vacche, vitelli, erano principalmente due: Caggiáne (gabbiano) e Caggiánélle (gabbianella), forse perchè, come nei gabbiani, anche in questi bovini prevale il colore bianco.

"Afféle a lu saleche Caggiá'!" (affila nel solco Gabbiano), gridavano i contadini, almeno chi si poteva permettere di possedere un bue, ammonendolo a non uscire fuori dal solco mentre tirava la pertecáre (l'aratro). Se non affilava al solco sajuccánne (bastonate). Anche questo modo di dire ai bovini divenne per analogia un ammonimento alle persone: lo si rivolgeva in tono da paternale, sopratutto ai giovani, maschi o femmine che fossero, invitandoli a rigare dritti e non sbagliare nella vita.

Ma era tutto il linguaggio, anche tra persone, ad essere influenzato dalla convivenza quotidiana con il mondo animale.

Ad esempio per dire che qualcuno si vantava, non si diceva colui si vanta, ma “ze hallejàje”, a significare che si atteggiava come un gallo, il re del pollaio. Riferendosi invece a persone scalognate, che non potevano farci nulla contro la malasorte, si diceva "povere che la péchere che n’arpo’ la lane” (povera quella pecora che non può evitare di essere tosata).

Poi vi erano frasi tipiche che risentivano dell'influenza del mondo culinario circostante, come ad esempio “quesse te’ la cicirchie ’ncape” (costuì in testa ha la cicerchia), per definire una persona assennata, con molta materia grigia nel cranio, o il contrario "quesse 'nte’ la cicirchie ’ncape", nel senso che è uno scapestrato o pazzo. “Z’è finìute lu véne a la vàtte” (è finito il vino nella botte), significava invece che era sopraggiunta la vecchiaia e la imminente fine della vita terrena.

Insomma, nonostante fossimo alla fine degli anni '50, tutto il linguaggio risentiva ancora della cultura contadina popolare, rimasta per certi versi immobile, da secoli, tramandata da padre in figlio.

E tornando ai nomi dei cani ne aveva uno da caccia 'Ntonie de Rucchiccie (Antonio Mastrocola). Si chiamava Fido, nome di cane popolare.

Si racconta che 'Ntonie, rinomato per essere un abile cacciatore, un pomeriggio se andò a caccia con il suo Fido cane, che dopo aver puntato un fagiano glie lo alzò. 'Ntonie lo colpì al volo con una fucilata, ma cirche e truve, cirche e truve (nonostante le innumerevoli ricerche ), non vi fu verso di ritrovarlo.

Al tramonto se ne tornò a casa sconsolato ed alla sera , dopo cena, se ne uscì per San Salvo, raccontando in giro ai suoi amici cacciatori la sua disavventura venatoria.

"Scià!!!"(Si!!!), cominciarono a sfotterlo gli amici. "Secondo me tu ne j si códde!" (Secondo me tu non lo hai colpito).

"Come ne j'aje codde!" (come non l'ho colpito). "J'aje códde eccome" (L'ho colpito eccome), cercava di convincerli 'Ntonie.

"Tu ne j si' códde", rincarava il dubbio un altro amico cacciatore.

"Je j'aje codde!", gli rispondeva 'Ntonie, sempre più indispettito.

Fatto sta che tra nu' j'aje códde e tu ne j si códde, si fece tardi ed andarono a dormire.

'Ntonie non ci dormì la notte. La mattina seguente si alzò di buonora ed insieme a Fido, tornò sul luogo del fagianicidio e ritrovò il fagiano.

Ah Fi’! Doppe dece ca je’ ne ’ncóje” (Eh Fido! Poi dicono che io non colpisco), ripeteva ogni tanto 'Ntonie al suo cane, mentre tornava a piedi in paese, non vedendo l’ora di dire ai suoi amici che si erano sbagliati.

A ripensarci oggi, era per certi versi divertente quella società contadina, nonostante le difficoltà quotidiane, ed aveva un suo fascino particolare.

Sebbene la gente avesse un sacco di problemi, le giornate trascorrevano liete e serene, senza troppe pretese, almeno ai miei occhi da bambino. La gente si era abituata a quel modo di vivere, non aveva grilli per la testa, sapeva accontentarsi di poco e sopratutto vi era molta modestia e la consapevolezza del proprio stato economico e sociale, migliorabile solo con il duro ed onesto lavoro.

Si viveva tutti insieme, uomini, asini, e galline, ognuno occupando i propri spazi e ruoli.

Le galline, ad esempio, lasciate libere, beccavano vermi ed altre cibarie per strada, immancabilmente disturbate da qualche bambino che le rincorreva. Era difficile per un bambino catturare una gallina. Il volatile, per modo di dire, appena intuiva che qualche monello stesse lì lì per catturarlo, provava a sollevarsi con le ali per pochi istanti ad un palmo dal suolo e squacarijénne squacarijénne (chiocciando chiocciando), dopo breve volo, riatterava con le zampe che muoveva in rapida successione, dando inizio ad una folle corsa a zig zag, girando il collo a destra ed a manca, per capire con la coda dell’occhio dove fosse in quel momento l’inseguitore. Il gioco, quasi sempre, non durava a lungo. La padrona, da dentro casa, sentendola crocchiare, si affacciava sull’uscio ’nghe ’na mázze de gránare (con una scoppa in mano) e sbraitando contro il monello, lanciava verso di lui la scopa che, se la mira era buona, e spesso lo era, si infilava tra le gambe del bambino, facendogli fare 'na belle capelótte (un bel ruzzolone).

Le galline producevano le uova ed erano un bene prezioso per le famiglie. Andavano preservate.

"Magne lu coccò! Magne lu coccò feje me'!" (Mangia l' uovo, mangia l'uovo figlio mio), dicevano le mamme e le nonne ai bambini quando li vedevano un po' sciupatelli.

Era reato rubare una gallina. Se qualche volta, malauguratamente qualcuna di esse finiva sotto le ruote di un automobile in transito, era proibito raccoglierla e riportasela a casa. Si rischiava la galera.

Ma ogni tanto, purtroppo per le casalinghe, sfortunatamente ne spariva qualcuna e non sempre per colpa degli zingari, che all'epoca si accampavano in periferia.

Era un dramma per la padrona, quando, ricontandole a sera, ad una ad una, mentre rientravano nel pollaio, si accorgeva che ne mancava qualcuna all'appello. Se ne andava su tutte le furie.

I ladri di galline erano difussimi nella zona. Spesso erano baldi giovanotti, che un po' per gioco ed un altro po' per fame, le sottraevano per strada o di notte nei pollai per farne lauti pranzetti.

Mi raccontò un giorno il mio amico Antonio Del Gesso, di Tavenna, che un giorno stessa sorte toccò ad un gallo tavennese. La padrona lo cercò per ore e ore, ma non riuscì a trovarlo. Alla fine, resasi conto che era finito in qualche padella, riferendosi ad ignoti, così sbottò ad alta voce: “'Sti disgrazijate! Ze l’hanne magnate lu halle me! Chi j puzza sci' li pénne mbaccie!” (Questi disgraziati! Si sono mangiati il gallo mio! Possano spuntare a loro le penne in faccia!). Poi in maniera apparentemente riflessiva, giusto per far credere ad un'altra donna del vicinato, che aveva un valido motivo per lamentarsi della perdita del gallo, aggiunse: "Ni è tante pe' lu halle! (Non è tanto per la perdita del gallo!). “T’avesse vulute fa vvedé’ gna ’ccalicave belle lu halle me!” (Ti avrei voluto far vedere come montava bene le galline il gallo mio).

Eh si, era una vera tragedia quando rubavano un gallo o una gallina. Figuriamoci quando spariva tutto il pollaio. Se non ci pensava qualche faina, donnola o cane pizze (puzzola), sovente erano le epidemie, come l'aviaria per le galline o mixomatosi per i conigli, a svuotare i pollai o gli allevamenti.

Nei primi anni ‘60 vi fu nu cciudáje (una moria) di galline e qualche tempo dopo anche di conigli. I conigli contraevano la malate’ de le cunéje (malattia dei conigli). J za bbuttáve l'ucchie e la coccie (si gonfiavano ad essi gli occhi e la testa) e dopo qualche giorno li trovavano morti dentro le gabbie. Stessa sorte finale per le galline, che ze sciminévene (diventavano ancor più sceme di quanto già si dica che siano) e non respirando bene, incominciavano a camminare 'nturtullìune 'nturtullìune (perdendo l’equilibrio), sino a sténne le pite (cadere a terra stecchite). Era considerato pericoloso per l’uomo mangiare la loro carne e quindi i loro corpi venivano buttati o sepolti per non far sviluppare la malattia.

Si racconta che a San Salvo vi fu una epidemia di aviaria nel ‘61 e morirono quasi a tutte le famiglie le galline. Si salvarono solo quelle de Za’ Deléne Cardarelle.

Eh brave a za Deléne! A segnuré 'nte z’è murte le hallene!” (E brava a zia Adelina! A te non sono morte le galline), le disse una vicina di casa, quasi a volersi a congratulare. Za’ Deléne, che era vedova, ricordando antichi dolori, con una lieve vena polemica, le rispose: "E che t'aja déce feja ma'! E canda z’è mórte lu maréte a Za' Deléne, allàure z’avevena muré’ le maréte a tutte Sande Salve?" (E figlia mia, cosa vuoi che ti dica. Allora quando è morto il marito a zia Adelina, forse dovevano morire tutti i mariti sansalvesi?).

Mi disse una volta Giovanni Di Iorio, sarto, emigrato nel ’57 giovanissimo a Parigi, ricordando quei tempi e com'era San Salvo prima che emigrasse in Francia: "San Salvo contava più o meno circa 3.000 abitanti, compresi i maiali, gli agnelli e le galline".

Forse avrà un po' esagerato. Ma non aveva tutti i torti.

pag.29

dietro/avanti


Un libro sul web

MA CHI SAREBBERO

LI SALVANESE

I forestieri a San Salvo

INDICE


Capitolo I
Introduzione
I maestri di scuola



Capitolo II
I carabinieri
e Nonsaccie




Capitolo III
da Gerardo D'Aloisio
a Luegge Capaùne




Capitolo IV
Lu camie de Masciulle
(Il camion di Masciulli)




Capitolo V
Giovanni Bassi
e Valentini Bassi Venturini




Capitolo VI
Vincenzo Larcinese




Capitolo VII
Ninuccie
lu panattire




Capitolo VIII
Lu macillare
de Lentelle




Capitolo IX
Nine
lu napuletane




Capitolo X
Franche lu 'nfurmire




Capitolo XI
Quei matrimoni d'altri tempi -
La bella farmacista ed Erpinio Labrozzi




Capitolo XII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIV
Erpinio Labrozzi e Maria Iole Di Nardo




Capitolo XV
(Fine prima Parte)


Capitolo XVI
Lu 'ngiugnìre
Tommaso Papi



Capitolo XVII
La famiglia Ricca




Capitolo XVIII
la crisi degli artigiani




Capitolo XIX
Lu motore
de le casuléne




Capitolo XX
Di Virgilio Nicola
la léma sàrde




Capitolo XXI
Lu camie
de Tinarìlle




Capitolo XXII
Angelo Di Biase
(Biascille)


Capitolo XXIII
Li carrettire
diventano camionis




Capitolo XXIV
Lu Jumme
ed il pastificio de mastre Camélle e Marchàtte




Capitolo XXV
Adelme, Gelarde e Micchéle Cillène




Capitolo XXVI
Li trajene
e la nazionale





Capitolo XXVII
La nazionale
ed il dialetto




Capitolo XXVIII
Li frastire
ed i venditori ambulanti




Capitolo XXIX
Quando la gente
parlava con gli animali




Capitolo XXX
Lu sciopere
de lu bosche
e le cantine sociali




Capitolo XXXI
La scoperta
del metano




Capitolo XXXII
La Brede (la SIV)





Capitolo XXXIII
La nascita
della Villa Comunale




Capitolo XXXIV
LA SIV
L'accensione
del 1° forno




Capitolo XXXV
Giorgio la Rocca
(lu rumuane)




Capitolo XXXVI
L'on. Aldo Moro
a San Salvo




Capitolo XXXVII
La fabbreche de le tavelàlle




Capitolo XXXVIII
Il profumo
del progresso




Capitolo XXXIX
La sirena
e le frasterézze




Capitolo XL
Il trofeo
San Rocco




Capitolo XLI
Pasquale Spinelli



Capitolo XLII
Umberto Agnelli
a SanSalvo




Capitolo XLIII
Scandalo al sole




Capitolo XLIV
Ma chi sarebbero
li salvanése