(Aspettando la dichiarazione di Erpinio)
A questo punto la commedia entrava nel vivo.
Il primo ad entrare in scena era lo sposo a cui spettava
fa'
l'entrate, cioè l'entrata ufficiale nella casa della
sposa, accompagnato da tutta la famiglia.
L'entrate prevedeva che la futura suocera
faciàsse lu
cuanàstre, cioè portasse un canestro ricolmo di doni
per i componenti della famiglia della sposa, riempito
generalmente con regali ed indumenti , come ad esempio
'na majtélle (una maglietta),
nu pare di cazzàtte
(un paio di calze),
'na cravattìce (una
cravatta),
'na caméscie (una camicia) al suocero,
nu
fazzóle pe 'ncápe (un foulard) alla suocera, oltre a
dolci, salami ed altra roba, tutta di prima scelta.
Generalmente la stessa sera, ma anche qualche settimana
dopo, dipendeva dai patti, gli sposi
mettavene l'anelle,
cioè si scambiavano una fedina in oro, che era il simbolo
ufficiale del loro fidanzamento.
Dopo questo primo atto, toccava allo sposo
fa' l'ore,
cioè regalare gioielli in oro alla promessa sposa, tra cui i
più graditi erano
li ciarcìlli (gli orecchini a
cerchio) e
lu bracciále (il bracciale), che più
grande era e più era ostentazione di ricchezza. Un piccolo
regalo, sempre in oro, era riservato anche alla sorella o al
fratello minore della sposa, in segno di augurio per un
imminente matrimonio. Il dono più importante, tuttavia,
toccava farlo dalla mamma dello sposo, che per l'occasione,
per farsi apprezzare, regalava alla sposa
lu pantantéffe
(dal francese pendant tif) o
lu láccie, che era una
collana d'oro lunghissima, che le persone anziane chiamavano
lu 'nzèrracolle, forse perchè veniva inserita la
prima volta dalla suocera nel collo della sposa.
"
Chi ja fatte?" (Cosa le ha regalato la suocera?),
domandavano il giorno appresso le comari, vicine di casa,
alla mamma della sposa. "
L'ha 'nzurruáte féne a lu
mujcule" (l'ha indorata con una collana d'oro che le
arriva sino all'ombelico), era la sua risposta soddisfatta.
Con il fidanzamento ufficiale gli sposi
z'avévene jurìti
(si erano giurati), cioè promesso reciproco ed eterno amore
ed iniziava il periodo di fidanzamento, che a quei tempi non
durava a lungo, al massimo un anno.
Durante questo periodo, gli sposi potevano finalmente
vedersi e frequentarsi, anche se sotto stretta sorveglianza,
sopratutto da parte della famiglia della sposa.
Lo sposo poteva recarsi tutte le sere a casa della sposa,
dove
ze mettàve salviàtte (si cenava). La domenica
mattina poteva andare a prenderla per portarla
a la
màsse (a messa). A mezzogiorno la riaccompagnava a
casa dove la suocera li aspettava perché
ze mettàva
tavéle (si pranzava) e
lu doppe mezzejurne (nel
pomeriggio) poteva
jè spasse (a passeggio),
sottembraccie
(a braccetto), con la fidanzata per il paese.
Per timore che
faciàssere le vej'a turte (che non si
comportassero bene), quando andavano a passeggio,
j'affelévene
apprésse (mandavano insieme agli sposi)
nu
mammóccie o 'na mammócie (un fratello o sorella minore
della sposa),
ch'aveva abbada' (che doveva vigilare),
almeno questo era nella speranza dei genitori.
Quasi a tutti era vietato di andare al cinema da soli: che
lu
mortaccése putàve allungua' le méne (vi era il timore
che lo sposo al buio allungasse le mani).
Spesso
lu mammóccie (il bambino) era proprio
nu
mammóccie, nel senso che era un ingenuo, e se non lo
era, compravano il suo silenzio
'nghe 'na féchera sàcche
(con un fico secco) o con una caramella, a condizione
però che non facesse il ruffiano: "
Ue' musche a la
ciàste!" (Silenzio), era l'ammonimento che riceveva
prima che facessero ritorno a casa.
Al rientro a casa all'imbrunire, dopo la passeggiata,
z'
armettàve salviàtte (si cenava) e dopo la cena, lo
sposo, ad una certa ora, aveva
trusciuluje' (doveva
andare via).
I suoceri, infatti, con la scusa
ca z'ave stiùse lu
fóche (che si era spento il fuoco), e che la mattina
seguente dovevano alzarsi presto per andare in campagna,
facevano capire allo sposo che era ora di migrare. Il timore
era sempre lo stesso:
ca' che lu mortacciése (che
quel sornione dello sposo),
allungàve le méne (si
abbandonasse in loro assenza ad effusioni amorose con la
loro figlia).
E così, tra
'na mésse de távele e de salviàtte (tra
pranzi e cene), tra
n'allunghenne de méne e nu musche a
la ciàste, (tra un'effusione amorosa ed un'invocazione
di silenzio al fratello minore), si avvicinava il giorno del
matrimonio.
I preparativi partivano qualche mese prima.
Una delle prime cose che si doveva fare era
acciaccà' le
ménnele (scognare le mandorle), che sarebbero servite
pe' fa' li dìggie (per fare i dolci). Vi
partecipavano un po' tutti, anche le donne del vicinato.
Grandi e piccini, con un martello o
'na pezzame de
matàune (mezzo mattone) in mano, tutti
acciaccá
le ménnele (a scognare le mandorle), con qualcuno che
s'acciaccáve pìure lu dàte (si dava un colpo di
martello accidentalmente sul dito).
I dolci, chiamati
li pizzàlle, erano
importantissimi. Servivano per tutto il periodo pre e post
matrimoniale. Si offrivano alle persone che sarebbero andate
a casa della sposa a farle visita prima del matrimonio; si
mangiavano il giorno del matrimonio; si mettevano dentro una
busta bianca, insieme alla bomboniera, per farli riportare a
casa, a notte inoltrata, dopo il ricevumento nuziale; si
portavano nei giorni successivi al matrimonio nelle case
degli amici e del vicinato che non erano stati invitati alle
nozze. A confezionare i dolci erano sempre le donne di casa,
sotto l'occhio attento di un'esperta in dolciumi.
A fa'
le diggie ere 'na mastre (una maestra)
Za' Mari
di Petrangele (zia Maria Vicoli).
Una settimana prima del matrimonio, invece,
si spannàve
la dàtte (si mostrava la dote alla gente) e
s'accungiàve
lu lette (si aggiustava il talamo nuziale), che
spesso, era ubicato
a 'na camere de cáse (in una
camera della casa), realizzata per l'occasione dopo aver
fatto
nu tramézze (un divisorio) alla camera
matrimoniale dei genitori o di altri figli già sposati.
Quando non vi erano altre soluzioni, sovente erano gli
stessi genitori ad offrire la loro camera ai novelli sposi,
in attesa di sistemazione migliore.
Erano giorni intensi e di festa quelli immediatamente
antecedenti al matrimonio.
La dàdde (La dote della sposa), che era stata prima
lavata
a la fànta vicchie (alla vecchia fontana) e
poi trasportata
'nghe nu trajéne alla futura casa
degli sposi, veniva
spáse (mostrata), appesa
a
du' zàcue (a due corde), in una camera appositamente
allestita, dentro la quale si recavano in processione, donne
del vicinato ed amiche di famiglia.
"
Che bella dàdde!" (che bella dote), erano i commenti
delle visitatrici. "
A canda è la dece u la quenece?"
(A quanto è alla dieci o alla quindici?), chiedevano
incuriosite alla mamma della sposa.
Il numero, rappresentava la quantita dei capi della
biancheria portata in dote dalla sposa, che più elevato era
e più era sontuosa.
Le processione di donne, che
je purtàvene piùre lu
cumplumente (che portavano agli sposi anche un piccolo
regalo), terminava quasi sempre quando
jávene a vedà lu
lette (andavano a vedere il letto matrimoniale), che
era parcheggiato in un'altra camera, tutte
smerlettelejéte
(addobato con coperte di merletto), in attesa di essere
'ngegnate, (usato), la prima notte di matrimonio.
Un momento dell'asciugatura
al sole dopo il lavaggio della dote, prima de spanne
la dátte a la case (di mostrare la dote in casa).
A LA SPOSE
(Il giorno del matrimononio)
Ed in questo clima di festa, che iniziava a diffondersi già
un mese prima in ogni angolo della casa, si arrivava
finalmente al giorno delle nozze in cui la gente
jave a
la spose (andava al matrimonio). Con la parola sposa
s'intendeva l'intera cerimonia nuziale.
Ieri come oggi, con le dovute differenze, la cerimonia, si
svolgeva in quattro fasi.
La prima era
canda ascéve la spose (quando la sposa
usciva di casa), poi la cerimonia religiosa in chiesa, il
pranzo nuziale ed il ricevimento.
L' uscita della sposa in abito nuziale dalla sua casa (ma
anche quella dello sposo dalla sua), era attesa da tutto il
vicinato, che aspettava nei pressi.
Era un momento emozionante. Appena la sposa, vestita di
bianco, si affacciava sull'uscio, partiva
nu bbelle
sbattamáne (un applauso scrosciante) , mentre vi era
sempre qualche donna, che da una finestra o da un balcone di
casa, le buttava addosso confetti frammisti a petali di
fiori.
Era un' emozione vedere la sposa uscire di casa: sembrava un
angelo vestito di bianco, timida e raggiante nella sua
immensa felicità.
Poi si formava il corteo nuziale, che a coppie in fila per
due, si dirigeva a piedi verso la Chiesa.
In prima fila,
annénte annénte, jave la spóse
(davanti a tutti andava la sposa),
sottembraccie a lu
patre o a nu fráte, (sottobraccio al padre o ad un
fratello). In seconda fila, sua madre, con un cappello in
testa, che si era fatto prestare da una comare di Vasto,
sottobraccio ad un figlio o ad un fratello; in terza fila
la
nénne (la nonna), quasi sempre con una gonna nera e
lunga sino a lu calecagne (al calcagno), sottembraccie
a
lu sciaùre (sottobraccio al nonno), che,
cióppe
cióppe (con andatura zoppicante),
'nghe nu
bastàune 'mméne (con un bastone in mano) e
lu
cappelle nóve (un cappello nuovo),
l'avèvene
arcágnite gne' nu pupulàlle (lo avevano rivestito
elegante per l'occasione, come un pargoletto).
Poi tutti
affelìti (in fila) seguivano gli
invitati.
L'arrivo di una sposa in
chiesa prima della rito religioso.
"
Fumì ' ! Fumì ' !", gridavano
'na màrre di
fraffìuse (frotte di bambini con il moccolo al naso)
alla vista del corteo nuziale.
Non vi era sposa, ricca o povera che fosse, in cui i
bambini, maschi e femmine, non la seguissero durante il
corteo, gridando
fumì, fumì!
"
Fumì" era un incitamento da parte dei bambini agli
invitati a lanciare i confetti. Era un usanza che si perdeva
nella notte dei tempi, tipica, tra i paesi del circondario,
solo di San Salvo.
In poche parole significava che se durante il corteo
nuziale, nessuno buttava i confetti, tutti gli invitati e
gli stessi sposi, erano
nu fumìre (un letame), gente
povera,
de bassa fràtte (di basso ceto sociale),
talmente povera da non potersi permettere neanche il lancio
di un confetto.
Naturalmente i bambini non ne conoscevano il vero
significato, sapevano solo che gridando
fumì
piovevano confetti , a volte anche con 5 - 10 lire in mezzo.
E così tra
nu fumì' ed un altro, manciate di
confetti piovevano dal cielo, alcuni dei quali, ricadendo
per terra,
zi scucciulujevene (si scalfivano),
mentre i bambini, per impossessarne, quasi quasi si
accapigliavano tra loro.
Spesso capitava, se la sposa era bagnata e quindi
s...fortunata perchè pioveva, che alcuni confetti andassero
a ricadere
'nmezze a la jozze (in mezzo al fango) o
dentro a
'na pantìre (una pozzanghera). Nulla di
grave. I bambini li raccoglievano ugualmente e dopo averli
asciugati, spesso con un fazzoletto
vràtte e ammusciléte
(sporco e gualcito), oppure strofinandoli sulla maglie o sui
pantaloni, se li mangiavano ugualmente, anzi a detta di
molti erano
le chiù sapréte (i più saporiti), perché
l'acqua aveva già iniziato il procedimento di scioglimento
dello zucchero, anticipando quello della saliva nella bocca.
E tra un
fu
mì' ed un altro, passando sotto i
balconi e le finestre delle misere case del paese, da cui
qualche donna, buttava una guantiera piena di confetti in
senso augurale, finalmente la sposa arrivava in chiesa, dove
in trepidante attesa, vi era lo sposo.
Lo sposo, com'è tuttoggi consuetudine, aspettava la sposa ai
piedi dell'altare, in compagnia della madre, la quale con un
fazzoletto di pizzo sul capo, alla vista della consuocera
con il cappello, che non sapeva che
j l'ave' mprestate
la cummuare de lu Vuaste (che se l'era fatto prestare
dalla comare di Vasto), dentro di sé, pensava: "
'Sta
carabbinire m'ha frecate! Z'a messe piùre lu cappelle! Che
cafunáme!" (Questa carabiniera mi ha fregata! Si è
messa pure il cappello! Che cafonaggine!), mentre il padre
della sposa, poverino, commosso,
chiagnáve
(piangeva), forse ripensando alla pecora o alla capra, data
in dote.
Saltando la cerimonia religiosa, che ieri come oggi, non
interessava a nessuno, anche perché
lu prédde (il
prete) all'epoca parlava in latino e la messa
hasse ze le
diciàve e hasse ze le sentéve (lui se la diceva
e lui se l'ascoltava), finalmente gli sposi uscivano dalla
chiesa, e dopo essere stati sommersi dai confetti sull'uscio
(all'epoca il riso non si usava), seguiti da un corteo
nuziale ancor più imponente, che comprendeva ora anche gli
invitati dello sposo, tra un fumì ed un altro, si avviavano
raggianti di felicità, verso la casa in cui sarebbero andati
ad abitare.
Sposi 31 Ottobre 1957:
'Ntonie de Carruzzire (Antonio Fabrizio) e
Fabrizio Olga Ilda Enelda, durante il ritorno a casa
dopo il rito religioso in chiesa. Intorno agli sposi i
bambini alla caccia dei confetti dopo aver gridato
"fumì!!. La foto è stata scattata in P.zza San Vitale.
Sullo sfondo è visibile a destra il vecchio ufficio
postale, al cui posto oggi vi è il Bar del Quadrilatero,
mentre sulla sinistra la casa di Tumassine Russo , la
prima ad essere demolita per allargare la piazza, che
era ubicata proprio dinanzi alla vecchia torre
campanaria ed all'ingresso della chiesa.
Fumì' ! Fumì' !, gridavano ancora '
na vrichiláme
de quatréle (un numero imprecisato di bambini), appena
gli sposi si affacciavano al balcone di casa
nghe 'na
uantìre 'mméne (con un vassoio in mano), ricolmo di
confetti e petali di fiori , per l'ultima formalità in
pubblico, prima del pranzo nuziale.
Era l'apoteosi.
Una grandinata di confetti si abbatteva sulle teste degli
amici e parenti, tutti radunati sotto il balcone per
applaudire gli sposi, mentre i petali di fiori galleggiavano
come piume nell’aria, sospinti da lievi aliti di vento, fino
a posarsi come farfalle senz’anima sulla strada.
Qualche confetto, sbattendo per terra, come al solito
zi
scucchiulùjeve (si scalfiva), ma i bambini se li
mettevano ugualmente
’nzaccóccie (in tasca), anzi
erano quelli che avrebbero mangiato per prima,
arpunnénneze
chélle bbune pe dóppe (riponendo quelli intatti per
dopo), per quando sarebbero tornati a casa.
“
La caraste’ è la caraste’”,(la carestia è la
carestia), mi disse una giorno un anziano, ricordando quei
tempi. “Non c’era neppure un soldo per comprare una
caramella e quei confetti erano una vera manna piovuta dal
cielo”.
Sposi 2 Ottobre 1960 - Angelo
De Nicolis e Annina Fabrizio, durante il classico lancio
dei confetti dal balcone di casa, dopo la cerimonia
religiosa.
NOTE:
- Ai bambini, per prenderli in giro, dopo che erano
stati bravi, si diceva per ricompensarli: "Canda
ti spuse te faccie je' annénte annénte (Quando
ti sposerai ti farò andare dinanzi a tutti).
- Fraffàuse, era un altro modo di chiamare
e definire in senso lato i bambini. Derivava dal
fatto che a quei tempi molti bambini, quando avevano
lu ciamàrre (il raffredore) stavano quasi
tutti 'nghe nu maccule gialle a lu nase (con
un moccolo giallo che gli colava da una narice del
naso, o da tutte e due). Erano tanti i bambini che
non avendo il fazzoletto, non si pulivano mai il
naso e non davano neanche troppa importanza al muco.
Era una musica sentirli ritirare lu fráffe (il
muco) , inspirando l'aria dal naso. La definizione
di fraffàuse, tuttavia, nel linguaggio
comune dialettale, assumeva anche significati
diversi, scherzosi se lo si diceva ad un bambino ed
offensivo se detto ai ragazzi. Lo si diceva in modo
offensivo ai ragazzi per dire loro che non capivano
niente e quindi dovevano stare zitti: "Zètte ti!
Si nu fraffause, piùre ti mo' capesce!" (Fai
silenzio! Sei ancora un bambino! Non hai ancora l'
età per capire) oppure per fare un complimento a
qualcuno che nonostante avesse già qualche annetto,
poteva considerarsi ancora giovane: "Si nu
fraffaùse! Si 'ncaùre ne fraffaùse" (Sei
ancora giovane, sembri un ragazzino).
- Storielle d'altri tempi. Si usava negli anni '50
comandare i bambini a lu speziale (dal
farmacista) per fargli fa na' masciate (un
servizio). Gli dicevano: "Uè uaio', famme 'na
mmasciate! Va a la farmace' e ddummàneje se te nu
ccuaune de nase péste!" (Bambino, fammi un
servizio. Vai dal farmacista e chiedigli se ha un
po' di naso pestato). Un'altra variante era quella
di mandarli, sempre dal farmacista, ad informarsi se
aveva un po' di remaùre de carrozze" (un po'
di rumore di carrozza). Vi fu un periodo in cui
qualche bontempone sparse la voce che il farmacista
accattave le cicáre (comprasse le
cicale) con le ali delle quali ci faceva una
pozione. Dicevano che le cicára ommène (i
maschi delle cicale) venivano pagate il doppio dal
farmacista, rispetto alle femmine. Prima che i
bambini si accorgessero che si trattava di una
bufala, vi fu uno sterminio di cicale.