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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I forestieri a San Salvo

di Fernando Sparvieri

Un po' di storia locale raccontando personaggi







Capitolo XXVI

Le trajéne e la nazionale



Sebbene qualche intraprendente giovanotto avesse intuito che il mondo stava cambiando e che bisognava adeguarsi alle opportunità che i nuovi tempi offrivano, rimaneva tuttavia l’agricoltura il lavoro più diffuso tra i sansalvesi, lo stesso mestiere che era stato dei loro padri, ai cui rischi secolari erano abituati da sempre.

Andare in campagna era sacro, una cultura, un dovere.

All’alba il paese si svegliava con il rumore degli zoccoli degli animali che si infrangevano sul selciato, rompendo un silenzio quasi surreale. Ogni tanto si udivano le voci dei contadini che parlavano con gli animali con semplici vocali. “Ahhhh”, era la vocale d’ordine per indurli a camminare. “Ihhhh”, era invece quello per farli fermare. "Tocche tocche", era il comando per far capire ad essi di proseguire senza tentennamenti. Se non ubbidivano, ci pensava lu sgrujazze (la frusta).

Il lavoro dei campi aveva sfamato intere generazioni di sansalvesi e la gran parte dei contadini non vedeva altre alternative se non quella di continuare a zappare la terra con il sudore della fronte.

Era in atto in quel periodo nel meridione il fenomeno dell'emigrazione di massa verso il nord Italia ed in Europa, ed alcuni contadini lungimiranti avevavano cominciato a far studiare i propri figli mandandoli a scuola a Vasto o in collegi dei frati, ma l’agricoltura restava il lavoro principale della gran parte della popolazione.

Ognuno però zappava il proprio orticello, nel senso che non vi era alcuna idea da parte dei contadini di costituire un'associazione che tutelasse gli interessi collettivi. Le uniche forme di collaborazione erano la restituzione di "jurnate", di giornate di lavoro, che funzionavano in questo modo: io vengo a zappare il tuo terreno un giorno e tu verrai a zappare il mio un altro giono.

Stessa cosa avveniva anche per animali da traino: io ti presto il mio asino un giorno e tu mi presterai il tuo un altro giorno.

Mio padre, Evaristo Sparvieri, che sul finire degli anni '50 venne nominato per un periodo giudice conciliatore, una specie di antico giudice di pace, mi raccontò che un giorno si recarono dinanzi a lui due contadini di San Salvo: lu capétane (soprannome di Giuseppe Fabrizio) e Federéche Cràcchie (Federico Checchia).

Era successo che i due si erano promessi a vicenda "una giornata d'asino".

Lu capetáne, però, secondo Federéche non aveva mantenuto il patto e quindi quest'ultimo si era rivolto al giudice conciliatore per dirimere la questione.

La funzione del conciliatore era quella di far conciliare le parti per evitare la causa vera e propria dinanzi al Tribunale di Vasto.

Durante il dibattito, mi raccontò mio padre, che alle sue spalle passeggiava avanti ed indietro l’avvocato Arnaldo Ciavatta, figlio di Don Antonio, sansalvese che si era trasferito a Vasto, il quale, incuriosito, in silenzio, ascoltava le rimostranze dei due.

“E’ vero”, chiese il conciliatore a lu capetáne, “che il signore ti ha prestato l’asino?”.

Scè! E’ lu vuàre!” (Si! È vero), gli rispose.

E’ perché tu non vuoi ridargli la giornata d’asino”, gli domandò il conciliatore, volendo capirne la motivazione.

Peccà lu feje di 'ssu sugnàure è jùte a caccie e ’nghe lu fucéle m’ha cavutìute tutte le citrìune” (perché il figlio di questo signore, inteso con senso di distacco, è andato a caccia e con il fucile mi ha crivellato con i pallini tutti i cocomeri).

A questo punto il conciliatore invitò i due contadini a trovare un punto di intesa, ma non vi fu nulla da fare. Lu capétane, gli rispose: “Nà! Nà! Je ce màtte l’avvucáte!” (No! No! Io ci metto l’avvocato).

E Federéche, di rimando: “Pure je ci màtte l’avvucáte!” (anch’io ci metto, l’avvocato).

Zi n'è jùte l’asene!” (E’ partito l’asino), sussurò l’avvocato Ciavatta all’orecchio di mio padre, a significare che ai due non sarebbero bastate le vendite dei rispettivi asini per pagare gli avvocati.

Ho raccontato questo aneddoto per dire che l'arrivo dei primi trattori, non riuscì a caccia' (a mandare via) gli asini dalle stalle.

Quasi tutti i contadini avevano un asino, un mulo o un cavallo e dentro le case vi erano ancora le stalle.

Al tramonto, dopo giornate di duro lavoro nei campi, un via vai di trajéne (carretti), trainati da asini, cavalli e muli, risaliva lentamente da lu Vurrìccie, lungo la salita di Via Trignina, che a quel tempo era la nazionale, mettendo in difficoltà autotreni ed automobili che se li trovavano dinanzi.

Era una disdetta, ad ogni curva c’era nu trajéne (un carretto trainato da un animale). Non è che i contadini lo facessero apposta, ma probabilmente il motivo era che ce n'erano talmente tanti di carretti che era inevitabile che qualcuno lo si potesse trovare in prossimità delle curve.

All'epoca, i carretti, erano considerati dal Codice della Strada, come qualsiasi altro mezzo di locomozione. Avevano le targhe, pagavano il bollo ed erano soggetti a controlli da parte della Polizia Stradale, che li fermava per vedere se erano in regola.

Posto molto temuto, un po' da tutti i contadini, ma non solo, era lu Vurrìccie, dove la Polizia Stradale, con le sue motociclette della Moto Guzzi, si fermava per i controlli degli automezzi.

A tal proposito, mi raccontò un giorno Carlo Cardarella, che una sera, mentre era di ritorno con la sua bicicletta dal mare, a lu Vurrìccie, venne fermato dalla Stradale.

Accanto a loro vi era un carretto con relativo asino.

“Giovane”, gli chiese un poliziotto, "conosci quel signore?", indicandogli con un dito un contadino che se ne stava risalendo a piedi verso il ponte dei Casolani.

“No”, gli rispose Carlo.

“Senti giovanotto”, gli disse il poliziotto. “Prendi questo carretto e riportaglielo”.

Era successo che la stradale aveva fermato il contadino che al tramonto stava tornando dalla campagna senza lu lìmue (il lume), che era obbligatorio accendere sul carretto all'imbrunire e questi,  quando udì che era in contravvenzione, gli aveva lasciato asine e trajéne, sbraitando e dicendo: “Putave ma' penza’ ca màssàre truvuàve le lédre a lu Vurrìccie?” (Potevo mai immaginare che questa sera avrei trovato i ladri a lu Vurrìccie!)

E siccome ogni mondo era ed è paese, successe un fatto quasi analogo a Tavenna, paese di un mio intimo amico, Antonio Del Gesso.

Antonio mi raccontò che un pomeriggio estivo, un contadino tavennese, che era una lenza, mentre tornava dalla campagna con alcune fascine di ceppi in groppa al suo mulo, vide in lontananza una coppia di poliziotti con le moto, che freschejéve sàtte a 'na cerche (prendeva il fresco all'ombra di una quercia), dove aveva istituito un posto di blocco.

Non si allarmò affatto, anzi disse al suo mulo: "Speriame ca ne mi férmene, senno' te faccie avvede' j' gna' tire nu mule nu puliziotte" (Speriamo che non mi fermino, altrimenti ti farò vedere come tira un mulo un poliziotto).

Arrivati al posto di blocco, i poliziotti, come immaginava, lo fermarono.

"Che successe! Comanda'!" (Cosa è successo! Comandante), chiese il contadino al poliziotto, facendo il finto tondo.

"Lei è in contravvenzione", gli rispose il poliziotto, aggiungendo: "Il mulo, carico così, limita la visuale agli automobilisti e poi intralcia il traffico stradale."

"Comanda'! ", gli rispose il contadino, "Ma 'nze po' chiude n'occhie! Sempre n'animale è!" (Comandante! Ma non può chiudere un occhio! Il mulo è pur sempre un animale!).

"Chiudere un occhio! Ma come si permette!", gli rispose adirato il poliziotto. "E poi io, la contravvenzione mica la faccio al mulo! La faccio a lei!".

Il poliziotto tirò fuori il blocchetto delle multe e cominciò a scrivere. Non vi fu verso di placarlo.

Ci vogliono 10.000 lire”, disse al contadino, staccando la ricevuta del verbale.

Diecimila lire!!!”, esclamò esterefatto il contadino. "Tohhhh!", disse al poliziotto mollandogli in mano la cima della fune alla quale era legato il suo mulo: "Mule e céppe 'nci vale tante!" (Mulo e ceppi, messi insieme, non valgono tanto), e se ne andò.

Il poliziotto cercò in tutti i modi di trattenerlo, ma non vi fu modo di farlo tornare sui suoi passi. Il contadino prese un’accorciatoia e risalì in paese.

Non trascorse un quarto d’ora che il poliziotto, tirandosi dietro il mulo, glie lo riportò a casa.

Se' viste!” (hai visto), esclamò il contadino, rivolgendosi al suo mulo: “Te l’ave’ dìtte ca te faceve vede’ gna tire nu mule nu puliziotte!” (Te l’avevo detto che ti avrei fatto vedere come tira un mulo un poliziotto).

Tornando a lu Vurriccie e per meglio far comprendere come le trajéne in quel periodo erano considerati uguali agli altri mezzi di trasporto, ebbene, giù a la Vurriccie, e precisamente all’incrocio tra la nazionale, la ve’ de la staziàune (la via della stazione) e Via Madonna delle Grazie, vi era 'na casarelle de le cantenire (vi era una piccola casetta dei cantonieri). Era una specie di piccola rimessa/ufficio. Ebbene, lì dentro, i cantonieri  avevano 'na machinàtte (una piccolo marchingegno) con quattro cinque tasti,  su ognuno dei  quali stave artrattáte (era ritratto)  nu trajéne, una bicicletta, una motocicletta, un'automobile, un autotreno. Il cantoniere, ad ogni passaggio di uno di questi mezzi, premeva il  tasto corrispondente a quello transitato, facendo una specie di primitiva statica sull’affluenza del traffico, che poi mandava a Chieti, all’ufficio provinciale della motorizzazione (fonte Mario Torricella).

Lu Vurrìccie.

pag.26

NOTA:

Lu Vurriccie, zona di San Salvo sino agli anni '50 quasi del tutto disabitata, è chiamata in questo modo perchè nella masseria di Teodoro Corrado, che era in loco, vi era un verro a cui i sansalvesi portavano le scrofe per la riproduzione. Questo verro, benchè adulto, era piccolo di statura. Da lì nasce il nome della zona a Lu Vurriccie, diminutivo di verro. (Fonte Fioravante D'Acciaro).


dietro/avanti


Un libro sul web

MA CHI SAREBBERO

LI SALVANESE

I forestieri a San Salvo

INDICE


Capitolo I
Introduzione
I maestri di scuola



Capitolo II
I carabinieri
e Nonsaccie




Capitolo III
da Gerardo D'Aloisio
a Luegge Capaùne




Capitolo IV
Lu camie de Masciulle
(Il camion di Masciulli)




Capitolo V
Giovanni Bassi
e Valentini Bassi Venturini




Capitolo VI
Vincenzo Larcinese




Capitolo VII
Ninuccie
lu panattire




Capitolo VIII
Lu macillare
de Lentelle




Capitolo IX
Nine
lu napuletane




Capitolo X
Franche lu 'nfurmire




Capitolo XI
Quei matrimoni d'altri tempi -
La bella farmacista ed Erpinio Labrozzi




Capitolo XII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIII
Quei matrimoni d'altri tempi -
Il fidanzamento
e a la spose




Capitolo XIV
Erpinio Labrozzi e Maria Iole Di Nardo




Capitolo XV
(Fine prima Parte)


Capitolo XVI
Lu 'ngiugnìre
Tommaso Papi



Capitolo XVII
La famiglia Ricca




Capitolo XVIII
la crisi degli artigiani




Capitolo XIX
Lu motore
de le casuléne




Capitolo XX
Di Virgilio Nicola
la léma sàrde




Capitolo XXI
Lu camie
de Tinarìlle




Capitolo XXII
Angelo Di Biase
(Biascille)


Capitolo XXIII
Li carrettire
diventano camionis




Capitolo XXIV
Lu Jumme
ed il pastificio de mastre Camélle e Marchàtte




Capitolo XXV
Adelme, Gelarde e Micchéle Cillène




Capitolo XXVI
Li trajene
e la nazionale





Capitolo XXVII
La nazionale
ed il dialetto




Capitolo XXVIII
Li frastire
ed i venditori ambulanti




Capitolo XXIX
Quando la gente
parlava con gli animali




Capitolo XXX
Lu sciopere
de lu bosche
e le cantine sociali




Capitolo XXXI
La scoperta
del metano




Capitolo XXXII
La Brede (la SIV)





Capitolo XXXIII
La nascita
della Villa Comunale




Capitolo XXXIV
LA SIV
L'accensione
del 1° forno




Capitolo XXXV
Giorgio la Rocca
(lu rumuane)




Capitolo XXXVI
L'on. Aldo Moro
a San Salvo




Capitolo XXXVII
La fabbreche de le tavelàlle




Capitolo XXXVIII
Il profumo
del progresso




Capitolo XXXIX
La sirena
e le frasterézze




Capitolo XL
Il trofeo
San Rocco




Capitolo XLI
Pasquale Spinelli



Capitolo XLII
Umberto Agnelli
a SanSalvo




Capitolo XLIII
Scandalo al sole




Capitolo XLIV
Ma chi sarebbero
li salvanése