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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Maria Mastrocola

(Vita torinese)


I racconti della signora Maria











VITA TORINESE (1954)

di Maria Mastrocola in Dulbecco

Via Brindisi 5, è questo il numero civico dove sono approdata al mio arrivo a Torino.

Era il 10 Ottobre, non ricordo bene di quale anno, forse il 1954. Al festival di Sanremo a Gennaio emergeva “Tutte le mamme”.

Era una giornata di sole e dal finestrino del treno assaporavo quel sole che mi rendeva gioiosa. Tornavo a Torino, per la seconda volta, e questa volta per restarvi, anche se il viaggio, fatto con mia sorella che vi lavorava, doveva solo essere turistico. Indossavo un tailleur principe di Galles che mi dava un aspetto elegante, aiutata dalla mia silhouette di ragazzina, che pesava appena 45 chili.

Quanta curiosità si accese nella mia mente entrando in quel cortile, nuovo per me. Attraversando lo spiazzo ciottolato, mi arrampicai quasi sulla scala che si trovava in fondo, di fronte al portone d’ingresso. Ad accoglierci c’era Michelina, la signora che ospitava in pensione mia sorella, che le faceva compagnia. Mi accolse con un sorriso e con un desinare molto ben fatto, così come si conviene agli ospiti nuovi.

Ero finalmente arrivata. Quasi tutto il cortile si animò all’improvviso.

Dal secondo piano salì a salutarci la signora Caldera, una donna piuttosto in carne e un tantino strascicante, che aveva un viso intelligente, da persona colta. Con Michelina parlava il dialetto, per me incomprensibile. Poi con un buon italiano mi rivolse parole di benvenuto, iniziandomi a parlare della sua “cita” (figliola), che sarebbe tornata presto dal lavoro e sarebbe venuta a salutarmi. Con un po' d'orgoglio aggiunse che la sua “cita” era sposata con un ingegnere che lavorava alla FIAT e che lei, la “cita", era impiegata presso la casa editrice Paravia, dove occupava una posizione di rilievo.

Conobbi, poi, Armida e Serafino che occupavano l’alloggio piccolo a destra, salendo la scala, di proprietà della signora Caldera (secondo piano). Avevano un figlio di nome Silvano che frequentava la quinta elementare, un bambino vispo e allegro, che dopo un po’ salì da noi a trovare Michelina, che era sua zia.

Tutta questa atmosfera di cortile cittadino mi piacque subito e quasi mi sentii a casa.

Imparai che il gabinetto era fuori dal balcone e che anche la signora Neta, che abitava nello stesso piano, nel piccolo alloggio di fianco, ne doveva usufruire.

In casa, appesi ad un chiodo, vicino alla porta, che si chiudeva con un ferretto che si infilava sul muro, vi erano tanti pezzi di giornale, ritagli de “La stampa”, giornale che compravamo ogni giorno. Io e Michelina ci tenevamo aggiornati sugli avvenimenti più eclatanti dell’epoca e le notizie che più ci interessavano erano le indagini sui delitti da risolvere. Se ricordo bene in quel periodo imperava il caso “Montesi” o “Fenaroli”.

La “sislunga” attirò subito la mia attenzione e mi piacque occupare la parte verso l’uscita, mentre a Michelina lasciai l’altra.

Ricordo che ad Ottobre il tempo era ancora clemente e che alla sera lasciavamo la porta, sul balcone, aperta. Immancabilmente a mezzanotte arrivava su la signora Caldera, che si attardava a raccontare le sue storie. Lei non curava molto il suo abbigliamento e mi raccontò che un giorno si presentò a casa un signore che cercava suo genero (l’ingegnere) e che lei sentendosi inadeguata si presentò dicendo: “Il Sig. Cagliostro non è in casa, il suo appartamento di sotto è chiuso e io sono la fantesca”

In effetti l’ingegnere Lino Cagliosto e sua figlia Teresa, avevano un alloggio più grande al piano terra, ma preferivano stare sopra dai genitori.

Madama Caldera, amava il bel canto: canticchiava pezzi di opere, raccontandone la storia. Tutte le sere Michelina aveva il suo bel da fare per convincerla a tornare a casa. La spingeva verso le scale, ma era inutile: lei tornava su a parlare con le “cite”, che eravamo io e mia sorella.

Conobbi dopo qualche tempo le amiche di mia sorella e gli abitanti degli altri piani. Al piano terra c’erano Francesca e Vittorio, due persone amabili, senza figli. All’ultimo piano, nella soffitta, abitava invece la signora Ginetta, un’ anziana zitella che, con il passare dei giorni e con il sopraggiungere dell’inverno, invitava me e mia sorella a casa sua. Non eravamo le sole. Arrivavano anche altre ragazze, tutte sedute in una vecchia “sislunga”, che aveva vicino ad una piccola stufa a legna, dove immancabilmente bolliva dell’acqua con la quale lei ci preparava un delizioso “capiller”, con limone e zucchero, che ci offriva in deliziose tazzine, con tutta la sua gentilezza. Ma non era solo la stufa e il “capiller” che ci attiravano a casa sua: era anche la sua virtù nel leggere le carte.

Per me era la prima volta che assistevo a questo avvenimento, in cui lei credeva veramente. Le signorine presenti le facevano leggere le carte, sperando di avere buone notizie su ragazzi e fidanzati: Lucia chiedeva se il suo fidanzamento con Fiorenzo sarebbe durato; Germana si informava su Silvano, il ferroviere; mia sorella su Ezio, l’ingegnere della Mondial Pistoni, che aveva ricominciato a frequentarci dopo averci incontrate un giorno in Via Cernaia, invitandoci, insieme alle amiche, a prenderci qualcosa in un bar, un vero avvenimento conoscendo la sua proverbiale avarizia.

La signora della soffitta era molto raffinata e quei pochi oggetti, che aveva nella sua misera dimora, raccontavano di un passato diverso. La sua raffinatezza lasciava intravedere un passato nobile; quando ne parlava il suo viso si illuminava di ricordi. Peccato che morì pochi anni dopo e io non feci in tempo a conoscerla meglio, a sapere di più su di lei.

I balconi di fronte appartenevano agli alloggi che davano sulla strada e vi abitavano poche persone. In compenso tra loro vi abitava una famiglia con tanti figli.

Al primo piano c’era un ufficio poi, a destra l’alloggio di Lino e Teresa, che una sera del primo inverno si adoperò per una fantastica “bagna cauda” . Al piano secondo c’era una famiglia di due persone che non vidi mai e al terzo piano, la famiglia Ciardo, che aveva parecchi figli, titolari di un laboratorio di cromatura, situato nel cortile, in cui lavoravano il marito ed i figli più grandi.

Dei ragazzi Ciardo, Carlo, il più grande faceva il filo a mia sorella e ogni tanto saliva su da noi, insieme ad altre ragazze del cortile. Era un bel ragazzone dagli occhi chiari e possedeva un mezzo viaggiante , che serviva per il loro lavoro. A volte ci portava a fare un giro per Torino. Mi fece vedere Corso Francia, Corso Orbassano che portava e porta a Santa Rita, e poi fuori città, Corso Vittorio ed in fondo il Valentino. Avevano da poco installata una stupenda fontana colorata che parea danzare al ritmo di una bella musica che si diffondeva tra i giardini del Valentino, da poco rimessi in ordine. Non so perché questa bella fontana ha smesso poi di funzionare.

Carlo non era gradito a Michelina poiché era risaputo che lui aveva una fidanzata ufficiale e secondo lei non doveva frequentare le ragazze del quartiere. Io non trovavo quel suo comportamento disdicevole perchè Carlo frequentava la compagnia che era abituato a frequentare da sempre, ma forse Michelina non aveva tutti i torti.

Ma torniamo agli abitanti del cortile.

Silvano, il nipote di Michelina, veniva sempre sopra. Con i suoi nove anni e la sua vivacità mi divertiva e poi io, che al mio paese, mi ero sempre occupata dei bimbi del quartiere, seguendoli nei compiti, trovavo naturale seguire anche quel bambino molto intelligente. Lo aiutavo a fare i compiti. Qualche volta, però, un po’ per pigrizia ed un po’ perchè Silvano se ne andava in oratorio don Bosco a seguire i giochi ( eravamo vicini alla chiesa di Maria Ausiliatrice ), arrivava alla sera senza aver fatto il compito per l’indomani, cosicché, saliva al terzo piano da noi, dopo cena, insieme alla mamma, che in piemontese mi diceva: “Maria, il cit a l’ha sogn e deve ancora fare il tema. Per favore fallo tu. Lui domattina si alza presto e lo copia”.

Conoscendo il pensiero del bimbo e la sua intelligenza, scrivevo il tema senza pensare che a scuola potessero accorgersi che era stato aiutato. Fu così che “vincemmo” vari premi sui concorsi assegnati, come il libretto della cassa di Risparmio, il premio della centrale del latte e altri ancora, allora indetti nelle scuole. Naturalmente il merito non era solo mio. Silvano era bravo e vinceva anche premi con temi, tutti suoi, fatti a scuola.

Per questi aiutini Armida, la mamma di Silvano, mi regalò un taglio di stoffa azzurra con il quale mia sorella, che lavorava nell' importante Atelier di Torino “Sanlorenzo”, mi confezionò un bel vestito che io impreziosii con un ricamo in bianco.

Era quello il periodo in cui apprezzavo molto un bel vestito e le novità. A tal proposito ricordo la prima neve di Natale ed io già avevo trovato un lavoro. Comprai un paio di stivaletti bianchi, corti alla caviglia, che si chiudevano con una cerniera laterale, ed avevano le suole di para. Che felicità! Volavo con quegli scarponcini comprati per la prima volta con soldi guadagnati da me.

Maria Mastrocola in Dulbecco





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