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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi










I due Sant'Antonie
(Tra devozioni ed incomprensioni)

di Fernando Sparvieri



Tonino Longhi (Sant'Antonio) e Luigi Franceschini (il diavolo).


La tradizione del canto del Sant’Antonio Abate affonda le sue radici nella antica e folcloristica civilità contadina, in cui il Santo ha sempre rappresentato il simbolo del bene che prevale sul male nell’eterna lotta contro il diavolo tentatore.

La forma di venerazione del cappuccino dalla fluente barba bianca, simbolo di giustizia, amore e fratellanza, non si limitava tuttavia al solo canto del Sant’Antonio nella serata della vigilia del 16 Gennaio, ma era costantemente assicurata nel corso di tutto l’anno dalla presenza tra le vie del paese del “Porcellino di Sant’Antonio”, che mio padre, il maestro Evaristo Sparvieri, in una prefazione di una sua poesia in vernacolo, dal titolo "Lu purchette di Sant'Antonie", così descrive: "Si usava una volta, a San Salvo, che spesso i contadini facevano dono a Sant’Antonio Abate, di un porcellino che, lasciato libero, girava per il paese, usufruendo del rispetto e dell’aiuto necessario alla sua sopravvivenza. Il maialino , diventato adulto, veniva venduto all’asta ed il ricavato andava a beneficio della Chiesa".

Audio della poesia


Il porcellino, così come si legge nella poesia, nonostante fosse rispettato e riverito da tutti, tant' è che al suo passaggio qualcheduno si toglieva addirittura il cappello, venne inghiottito dal mistero e dagli stomaci di una famiglia che pare abitasse in piazza Amistà, attuale Piazza Europa, la quale a causa della fame, pensò "bene" di farlo a paste de saggèccie (pasta di salsiccia), decretando per sempre questa singolare forma di venerazione del santo cappuccino.

Fatta questa doverosa premessa, per fatti che risalgono agli anni del primo dopoguerra, tornando nel campo della tradizione dei canti popolari, a molti di voi suonerà strano, ma anche il canto del Sant'Antonio, il più noto e famoso fra quelli di gennaio, fu il primo a finire nel mondo dell' oblio. Nessuno lo cantava più. Infatti, sul finire degli anni '50, al contrario del Capodanno, della Pasquetta e del San Sebastiano, che continuavano ad essere cantati per vie del paese, il canto del Sant'Antonio, insieme al suo porcellino, parevano essersi dileguati, per sempre, dalla tradizione folcloristica locale.

L'unica forma di venerazione di Sant'Antonio che io ricordi era quando negli anni '50, qualche mamma, la mia compresa, per sciogliere un voto fatto durante la gravidanza a Sant'Antonio, quello di Padova o da Lisbona, da non confondere con il nostro abate, definito anche il Grande, l'egiziano o l'anacoreta, vestiva per un periodo il proprio figlioletto gne' nu municiarìlle (come un fraticello), perchè aveva esaudito le sue preghiere ed aveva dato alla luce nu feje lèbbere e belle (un figlio sano).

Tornando al canto, io personalmente, sino agli anni '80, ne ignoravo l'esistenza, per un motivo molto semplice: non avevo mai sentito nessuno cantarlo e quindi mi erano sconosciuti sia il testo che il motivo musicale.

La prima volta difatti che mi imbattei nel Sant'Antonio, fu quando una sera del 16 gennaio dei primi anni '80, ai miei amici Tonino e Nicolino Longhi, Fernando Malatesta, Gino Cacchione, Michele Molino e qualche altro, tutti di qualche decennio più grandi me, venne in mente di andare a cantare il Sant'Antonio a casa di 'Ntónie de Carruzzìre (Antonio Fabrizio), che abitava in Piazza San Vitale, per fargli una sorpresa. Mi coivolsero al'ultimo momento come "suonatore" di fisarmonica. Per loro fu un successo, per me un disastro. Siccome io non conoscevo la canzone e loro non è che ricordassero bene il motivo e le strofe, fu un adattamento musicale: testo di un presunto Sant'Antonio e musica del San Sebastiano. 'Ntónie Caruzzìre, nonostante lo scambio del motivo musicale, si commosse sin quasi alle lacrime.

Usciti dalla casa di 'Ntónie, spinti dall'euforia, decisero di recarsi a cantare a casa di un altro loro amico, di nome anch'egli Antonio, che abitava in Via del Popolo. Saggiamente l'altro Antonio, che io non conoscevo, se ne restò a letto e non ci aprì, facendo ricordare a tutti che esisteva anche il rovescio della medaglia e cioè che non sempre le porte venivano spalancate.

Anche se quella fu solo una serata goliardica, l'anno seguente i soliti amici vollero fare il bis.

Si presentarono, qualche giorno prima del 16 gennaio a casa mia, manifestandomi l'intenzione di voler cantare di nuovo il Sant'Antonio. Memore dell'esperienza precedente, cercai di svicolare, ma non vi riuscii.

Iniziarono a cantare, con reminiscenze dell'antico canto, ma non si capiva niente. I miei tentativi di carpirne al volo la linea melodica, furono vani.

E fu così, che dopo aver tentato inutilmente di accompagnarli con il pianoforte, non riuscendo a comprendere addirittura se la tonalità fosse in minore o in maggiore, all'mprovviso, quasi a volerli prendere e prendermi in giro, mi misi a suonare un motivetto inventato di sana pianta all'istante, con note che, come non sempre accade ad un compositore, iniziarono a susseguirsi una dopo l'altra, sino a diventare una canzonetta.

"Fràgne quàsse!" (E' una bella canzone questa), incominciarono a dire. "A ma' cantà 'ssa canzàune" (canteremo questa canzone).

"Ma no", risposi loro ridendo. "Questo mi sembra più una motivo da Sanremo che da Sant'Antonio", conclusi, sperando di averli dissuasi. Ma non ci riuscii. Come si dice avévene 'ncuccìte (si erano intestarditi) e volevano riascoltarla, cantandoci sopra, improvvisandosi ognuno paroliere.

Secondo me il problema era che la melodia aveva uno sviluppo armonico abbastanza complesso per un Sant'Antonio, con la prima parte in La minore ed il ritornello il La maggiore. Roba da lasciar perdere, ma non vi fu nulla da fare.

Fatto sta, che richiamato più che dal suono dal frastuono, dopo un po' arrivò mio padre, che conosceva la versione originale del Sant' Antonio. Non gli fecero neppure aprir bocca: avevano deciso di cantare quella mia estemporanea composizione. Anzi, conoscendo la vena poetica dialettale di mio padre, lo invitarono a scrivere un testo che si adattasse a quella melodia. Dopo una mezz'oretta il nuovo canto, in dialetto abruzzese, era bello, per modo di dire, e pronto.

Ma non la finirono qui. Sulle ali dell'entusiasmo il giorno seguente mi dissero che volevano addirittura esordire in pubblico, con tanto di coreografia.

La cosa iniziava ad essere impegnativa.

Chiesi a questo punto ai miei amici coetanei suonatori di darmi una mano e così organizzammo un'orchestrina con Ivo Balduzzi alla fisarmonica, Michele De Filippis e Rino Di Cola alle chitarre, Nicola Iannace a lu tàmirre (al tamburo), io al violino che appena strimbellavo. Alle prove, al garage di Nicolino Longhi in Via Platone, vi fu un pienone. Eravamo una trentina, tutti amici, fra i quali molti miei coetanei o quasi, come Enzo Marzocchetti, Osvaldo Menna, i fratelli Vito e Luciano Cilli.

Ma questo era solo l'inizio. Ora vi era da studiare la coreografia.

Qualche giorno dopo Tonino Longhi mandò sua moglie Maria al mercato settimanale, che all'epoca si svolgeva in Via dello Stadio, dicendole di acquistare quanti più metri possibili di stoffa color marrone per realizzare le tonache da mónecie (da frate), che ogni partecipante avrebbe dovuto indossare. Quì incontrò un ambulante che le disse che aveva degli spezzoni nel suo negozio a Termoli, luogo in cui Tonino e Fernando Malatesta si recarono in 500 FIAT la sera stessa, buscandosi anche una contravvenzione per eccesso di velocità. Motivo: j'avè 'ntrìte li vìrme nghìule (modo di dire in sansalvese quando una persona diventa super attiva non fermandosi più).

Sempre molto velocemente (Tonino tagliava e Maria cuciva), vennero confezionate in poche ore 35 tonache di lunghezze diverse, adattando gli spezzoni di di stoffa all'altezza dei partecipanti. Ci uscì anche 'na tunucarélle (piccola tonaca) da bambino.

Contemporaneamente Fernando Malatesta, invece, nel suo laboratorio di perito elettrotecnico, come si intuisce già dal suo cognome, ze na ve' jute de cóccie e faceva lo scienziato: con dei tubi di plastica bianca, realizzò 35 candele a batteria, ognuna con una lampadinella sopra, che benemè canda alijévene (che emanavano una luce rossa e fioca), che si accendevano e si spegnevano facendo fare contatto a due fili elettrici con la pressione delle dita.

A questo punto, come in ogni congregazione di frati che si rispetti, mancavano solo i cordoni, che vennero realizzati con parecchi metri di corda acquistati a la puteche de Carminuccie Colànde (Beniamino Carmine Tomeo), il padre di Felice c'est bon. Costo completo per ogni capo d'abbigliamento 10.000 lire.

La sera del 16 gennaio il gran debutto in piazza Giovanni XXIII.

I frati, in fila per due, partendo dal garage di Nicolino Longhi, iniziarono a sfilare per le vie del paese, come quando, in occasione di un funerale importante, venivano i frati cappuccini dall'Incoronata di Vasto, che i sansalvesi chiamavano "Il Capitolo", che era un corteo che precedeva il feretro, schierati con li municiarìlle davanti (ragazzini che studiavano al collegio per diventare frati), i frati dietro in ordine di altezza, ed il priore che chiudeva la sfilata.

Tonino Longhi, in prima fila, nghe la vesáccie, guida il corteo dei "frati", che declama una litania, scritta da Michele Molino.


E qui arrivò il bello.

Grande fu la mia sorpresa quando, arrivati in piazza, incontrammo un'altra squadra che andava cantando il Sant'Antonio.

Non so se l'incontro fu casuale o premeditato.

Erano personaggi del calibro del Cav. Leone Balduzzi, al violino, Umbertuccio De Filippis alla chitarra, Olindo Palucci al mandolino/banjo, Andrea Ciavatta (ndriucce lu telefene) voce solista e caratteristica, mastre Ntunine piccinciàlle (Antonio De Filippis), che cantava solo di controcanto, l'attivissimo Ennio Di Pierro, Augusto Iezzi, Rocco Martelli, Cirese Antonio, Virgilio Cilli e tanti altri, accompagnati dalla fisarmonica di Tonino Mariscialle (Masciale). Indossavano tutti le cappe ed abiti tradizionali, un vero tuffo nel passato, insuperabili, sopratutto perchè cantavano il vero Sant'Antonio, quello tradizionale, che al ritornello dice: "Oh lemosina! Oh remite! Dateci a noi soccorso e aiuto, fateci a noi la carità".

Vi fu l'esibizione di entrambi i gruppi, tra gli applausi ed i complimenti reciproci e degli spettatori.

I due canti, potete ascoltarli qui:


Lu Sant'Antonie
(tradizionale)
interpreti "Gli amici della Pasquetta"
(Alla fisarmonica Ivo Balduzzi, alla chitarra Ergilio Monaco ed al mandolino Fernando Sparvieri)

Il gruppo degli anziani.
Accosciati da sin.: Ennio Di Pierro, Tonino Masciale alla fisarmonica, Lucio Ottaviano, al mandolino, Olindo Palucci, al mandolino banjo, Zi Umberte De Filippis, alla chitarra. In piedi in prima fila da sinistra: Andrea Del Villano, Rocco Martelli, Virgilio CIlli, Ntunine Piccinciàlle (Antonio De Filippis), Leone Balduzzi con il violino. In terza fila da sin.: Angiluccie (Angelo) De Nicolis, Gennarino Raspa (Sant'Antonio), Ntunine Cirascille (ANtonio Cirese), Amedeo Artese, Egidio Cilli, Angelo Longhi. In quarta fila, da sin. Augusto Giustino Iezzi, Michele Ranalli, Vitale Raspa, Igino Granata, SEbastiano Checchia e Donato Corrado. Gli ultimi due in alto: da sin. Luigi Iezzi, figlio di Augusto e Nicola Artese, figlio di Amedeo.





Lu Sant'Antonie
(Parole di Evaristo Sparvieri e musica di Fernando Sparvieri)
Interpreti  Cantori  bambini "Non solo musica" - diretti da Lara Molino

Il gruppo dei giovani.
Da sin. in piedi: Fernando Sparvieri, Michele Molino, Sante Mincone, Gino Cacchione, Tonino Longhi (Sant'Antonio), Nicolino Longhi, Nicolino Faraone "Mazzemarelle (il diavolo), Ivo Balduzzi, Enrico Malatesta, Vito Cilli, Lino Checchia, Ennio Ciccotosto, Michele De Filippis. Accosciati da sin.: Vitale ALfonso Franciotti, Diego Longhi (mascotte), Fernando Malatesta, Ergilio Monaco, Osvaldo Menna, Nicola Iannace, Vincenzo Monaco, Luciano Cilli, Cesare Giampietro.


Nell'ascoltare l'interpretazione di Balduzzi & C. restai letteralmente incantato dal Sant'Antonio tradizionale, quello dei nostri avi, che finalmente avevo ascoltato. Mi impressionò, sin dalle prime note, la sua linea melodica (l'arie), semplice e soave, supportata da uno sviluppo armonico facile, che portava magicamente indietro nel tempo, facendomi rivivere con la fantasia un' epoca che avevo vissuto da bambino, appena assoporata e poi svanita con l'arrivo dell'industrializzazione negli anni '60.

Balduzzi ed il suo gruppo furono invece entusiasti del nuovo canto, decantandone la linea meolodica ed il tema, molto simile negli argomenti ai canti del Sant'Antonio di molti paesi vicini, in cui si racconta dell'eterna lotta tra il Santo ed il diavolo.

Negli anni successivi i due gruppi, uno definito quello dei giovani e l'altro degli anziani, prima di fare il giro ognuno per le case prestabilite, continuarono ad incontrarsi in Piazza Giovanni XXIII, ciascuno con il proprio canto, richiamando un pubblico sempre più numeroso. Gli "anziani" continuavano ad indossare le tradizionali cappe. I "giovani", invece, continuarono a sfilare sempre vestiti da frati, mentre recitavano litanie tra il sacro ed il profano di cui ne era stato l'autore Michele Molino.

Anche la scenografia veniva ogni anno mutata. Un anno i frati arrivarono in piazza tutti sul ribaltabile del camion di Egidio Cilli, guidato dal figlio Luciano, che funse anche da palco per le esibizioni.


I due grupppi, quello dei giovani e degli anziani, in una foto ricordo al ristorante Palladio, in Via Grasceta, dopo aver cantato il Sant'Antonio. Nella foto, in terza fila, sono ritratti anche i fratelli Angelo, Antonio e Vito Ialacci, classici interpreti di canti popolari folcloristici locali, insieme all'altro fratello Dichidóre (Teodoro), anch'egli nella foto nell'ultima fila in alto al centro con il borsalino. In terza fila, il primo a destra è invece Mario Ialacci, primogenito di Dichidore.


I due gruppi, sempre in amicizia e senza alcun spirito di rivalità, qualche anno dopo si fusero per partecipare a festival regionali organizzati in altri paesi della Regione (primo fra tutti quello di Loreto Aprutino), ove cantavano entrambi i canti.

Dopo queste esperienze fuori terra e sull'onda dell'euforia, Tonino Longhi ed altri amici del gruppo dei giovani, decisero di organizzare anche a San Salvo la prima rassegna regionale del Sant'Antonio, che si svolse al Cinema Odeon, invitando a partecipare cantori dell'intera Regione.

Fu così che nacque la Rassegna Regionale del Sant'Antonio, oggi patrocinata oggi dal Comune di San Salvo.

I due gruppi continuarono a partecipare insieme a numerosi festival del Sant'Antonio che si svolgevano sopratutto nel pescarese, oltre a partecipare alle rassegne regionali organizzate principalmente da Tonino Longhi all'Odeon di San Salvo.

Il festival raggiunse fama regionale suscitando l'interesse di TVL, una delle prime televisioni private, emittente Abruzzese con sede in Lanciano, che venne a registrare al Cinema ODEON l'intera manifestazione, trasmessa poi in differita, con diverse repliche, di cui posseggo una registrazione in pessimo VHS (fa le furmucàlle).


L'ingresso al cinema Odeon del gruppo dei cantori sansalvesi durante il 1° festival del Sant'Antonio.


Il gruppo sansalvese durante l'esibizione all'Odeon. Da sin. Gabriele D'Alfonso (nella foto non inquadrato totalmente), Alfonso Monaco, Rocco Martelli, Antonio Cirese, Nicola Iannace, Vito Cilli, Osvaldo Menna, Lino Checchia, Gino Cacchione seminascosto, Fernando Malatesta.


Felice Tomeo, presentatore della prima edizione del Festival Regionale del Sant'Antonio, dona una targa ricordo ai cantori sansalvesi, riuniti in un unico gruppo e tutti vestiti con le tonache. Da sin. Fernando Sparvieri, alle sue spalle si intravede Ivo Balduzzi, seminascosto Gabriele D'Alfonso, Enzo Marzocchetti, Alfonso Monaco, Loriano Raspa, Tonino Longhi, seminascosto Ennio Di Pierro, Rocco Martelli e Antonio Cirese.


Ma come avviene nella vita, in cui ogni cosa ha un inizio ed una fine, un giornò l'armonia nel gruppo dei giovani si ruppe.

Colpa di un maialino, o meglio di una vicenda che coinvolse un maialino.

A Tonino Longhi, che era l'organizzatore principale, era venuto in mente già da qualche anno di estrarre a sorte alla fine del festival, tra tutto il pubblico partecipante alla manifestazione, un porcellino vivo, che veniva acquistato a Marie panattìre (Mario Artese), figlio del panettiere Nicolino Artese, che non aveva seguito le orme paterne, mettendosi a fare l'allevatore di maiali nelle vicinanze del cimitero.

Quell'anno la manifestazione si svolse nella sala consiliare del Comune, tutta illuminata come una cassa armonica e gremita di pubblico, in quanto i due cinema di San Salvo, l'Odeon ed il Biagino, avevano entrambi chiuso per sempre i battenti.

Fuori nevicava.

La sorte volle che nessuno risultò vincitore del maialino in quanto il possessore del numero estratto forse era già andato via.

E qui successe l'impensabile.

Il dilemma era: "Chi si sarebbe preso cura del maiale?".

Qualcuno pur se lo doveva riportare a casa quel maialino, che attendeva fuori, all'adiaccio, sotto la neve.

Si era fatto davvero tardi, molti erano già tornati a casa, ed il maialino era ancora lì, in P.zza Papa Giovanni XIII, che grugniva legato con una corda ad un albero vicino al Comune, mentre gli organizzatori, sotto la neve, che fioccava, non riuscivano a trovargli una sistemazione.

Si fece avanti a questo punto Nicolino Longhi, che lo caricò nella sua 500 FIAT e se lo riportò a casa, rinchiudendolo dentro un bagno del garage.

L'idea era quella che dopo qualche giorno sarebbe finito in porchetta, in una cena collettiva.

Trascorse una quindicina di giorni e tutti parevano essersi dimenticati del maiale, ad eccezione di Nicolino Longhi, che ogni tanto diceva: "Ue' canda ze l' àmà magnà chu lu purcitelle?" (Amici, quando vogliamo mangiarlo quel maialino?)

La domanda di Nicolino era pertinente.

Una sera, infatti, mi telefonò Tonino Longhi, dicendomi che Rosetta, la moglie di Nicolino, era imbufalita perchè quel maialino, oltre a grugnire notte e giorno ed a dover essere accudito, z'ave' magnate la pórte de lu habbenàtte de lu cáraggie (aveva rosicchiato la porta del bagno del garage) ed il povero Nicolino era in crisi matrimoniale.

Bisognava farlo fuori urgentemente, anzi lo avevano già fatto fuori, e mi invitava a cena a base di porchetta a casa di Nicolino. Gli chiesi:" E gli altri?".

Mi rispose che data la ráje (l'ira) di Rosetta e lo scarso tempo a disposizione per organizzare una cena collettiva in un ristorante, avevano deciso di rinviare a data da destinarsi il pranzo ufficiale con tutti gli altri, naturalmente dopo aver riascquistato a loro spese un maialino.

Intuendo la reazione degli altri miei amici, anche perchè ero io che fungevo da collante tra di loro, pur comprendendo le loro ragioni, non partecipai a quella cena e ci rimasero male.

Ciò che temevo, il giorno dopo si avverò.

Il giorno seguente, infatti, com'era prevedibile, si sparse la notizia fra gli altri componenti del gruppo, che pur restando a pancia vuota, non digerirono.

Fu la goccia che fece traboccare lu trócche (il trogolo).

"Z'hanne frichiti lu purcìtélle" (si son fregati il maialino), fu il ritornello finale di quel Sant'Antonio.

Non riuscirono mai a chiarirsi tra di loro i miei amici e quel maialino, finito in porchetta, mangiato solo da una parte del gruppo, fu l'inizio della fine delle rassegne regionali del Sant'Antonio a San Salvo, nonostante Tonino Longhi , Gino Cacchione e Fernando Malatesta continuarono ad organizzarne alcune per qualche anno.

L'armonia si era rotta.

La verità probabilmente, sta nel fatto, che i tempi stavano mutando e che la società, in quegli anni di benessere, si stava già avviando verso la mentalità attuale, in cui è sempre più difficile comprendersi, tra personalismi, mancanza di umiltà e voglia di protagonismo.

Per fortuna, da qualche anno la rassegna regionale del Sant'Antonio è tornata in auge.

Dopo alcune rassegne organizzate anni dopo dal Centro Cultutale di San Salvo, si è fatto promotore dell'iniziativa il gruppo New Generation (Pro-Loco), fra cui, consentitemi di citarlo, spicca il nome di Sandro Cacchione, figlio del compianto amico Gino, fra i fautori delle prime manifestazione. Sandro, all'epoca bambino, era la mascotte del gruppo, insieme a Diego Longhi, indossando entrambi un piccolo saio da "municiarélle". E' proprio vero che chi ben semina ben raccoglie.

Prima di concludere un'ultima notazione sul canto del Sant'Antonio, o meglio sui canti.

Il canto Sant'Antonio, che per un trentennio, dagli anni '50 agli '80, era sparito totalmente dalla circolazione, è passato in questo primo decennio del duemila da una fase di deflazione ad un'altra di inflazione.

La sera del 16 gennaio, infatti, sono molte le versioni che si sentono in giro per le vie del paese, scritte da vari autori, compresa qualcuna in cupellese.

Anch'io ne composi una, per il motivo che vi ho raccontato.

Forse perchè sono un amante della tradizione pura ed autentica, un po' me ne pento per essere stato il primo ad aver dato inizio a questo "inquinamento" del folclore del Sant'Antonio, che coinvolge la quasi totalità delle tradizioni, sempre più spesso adattate ai tempi.

La tradizione, per essere tale, credo che debba sempre essere il più fedele possibile alle origini. E' inconcepibile, ad esempio, che con la brace del fuoco di San Tommaso ci si cuociano le salsiccie, confondendo il sacro con il profano.

Forse sarà questo il motivo per cui, l'unico Sant'Antonio che riesce ancora ad emozionarmi, la sera del 16 Gennaio, è quando ascolto quello classico che cantavano i nostri padri, che al ritornello faceva: "O lemosine! O remite! Dateci a noi soccorse e alliere (sollievo) e fateci a noi la carità".

Il resto "l'è tutto sbagliato... l'è tutto da rifare", diceva Gino Bartali.

Fernando Sparvieri





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