Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri
Ma chi sarebbero li salvanése
I racconti di Fernando
Sparvieri
Un po' di storia locale raccontando personaggi
Uggénie lu sacrastane
(Eugenio De Francesco, sagrestano)
(S.Salvo 27/9/1898 - 3/1/1970)
di Fernando Sparvieri
Uggénie cantave e elle sunave l'organe (Eugenio, il
sagrestano, cantava e lì, in chiesa suonava l'organo).
Era un piacere triste sentirlo suonare. Non so se avesse
studiato musica e latino, ma importava poco. Seduto lì, sotto
la nicchia de Sande Vetale, in fondo, sulla destra
entrando nella chiesa, se ne stava lì, buono buono, a due
passi dall'altare, e ogni tanto, suonava e cantava. Si alzava,
solo per qualcosa che aveva concordato con Don Cirillo per
servire la messa. Poi se ne tornava, mogio mogio, con il suo
lento passo ondeggiante al suo posto e lì, risuonava, e in
latino, ricantava.
A me, che ero un bambino, e che la musica l'avevo nel sangue,
mi piaceva ascoltarlo, anche se quella sua voce era vecchia
come il suo organo, e le sue canzoni erano sempre tristi.
Sapeva cantare e suonare, però in fondo, e lì in fondo, Uggénielu sacrastane.
Partiva all'improvviso con un accordo in minore o maggiore, a
seconda delle canzone e la sua voce, bilanciata con il volume
dell'organo, si spandeva per tutta la chiesa, che parea
ascoltarlo in religioso silenzio, ma chissà. Se il canto era
triste, esempio durante un funerale, partiva sempre in minore.
Se invece il canto era liberatorio, gioioso, "resurrezionale",
adoperava una tonalità maggiore, che rendeva l'atmosfera
ugualmente triste, ma un po' meno dolorosa. Tonalità maggiore
o minore, finiva quasi sempre i suoi canti in maggiore,
aggiungendo all'accordo di tonica, una nota di quarta e di
seconda, passando e ritornando sulla terza, per finire sempre
con la tonica maggiore, ad libitum, a volte esagerato, come se
j'avesse 'ngannate lu sonne (gli fosse venuto
sonno) sull'organo.
Era figlio d'arte Uggénie. Suo padre, Zi Carminìccie,
era stato anch'egli sagrestano, e tutta la sua famiglia era
costituita da uomini e donne di Chiesa. Era una famiglia di
sagrestani, preti, monaci, suore e missionari. Suo figlio,
Mario, era missionario in Africa, mentre una sorella, Za
Móneche (Zia Monaca), così la chiamavamo noi bimbi, se
n'era tornata da Napoli a San Salvo, dopo che aveva litigato
con la superiora in convento, tornandosene a casa. Donna bassa
e paffutella, con carnagione chiara ed i denti quasi bianchi
in gengive un po' anemiche, sorrideva sempre, girando per il
paese, vestita con una gonna nera lunga, sempre la stessa, una
" scuffietta" in testa ed un lungo e grosso crocifisso dorato
sul petto, che fermandosi ci faceva sempre baciare. Non era 'na
monaca svestiute, cioè una suora che aveva abbandonato
la veste religiosa,ma una suora a riposo.
Eugenio il sagrestano, il primo
a destra, con la testa pelata, alle spalle di Don Cirillo.
Quindi Eugenio, sebbene fosse anche scarpáre
(ciabattino), era del mestiere, tramandatogli forse da più di
una generazione. In chiesa, però comandava Don Cirillo e si
vedeva. Uggénie, che era un pezzo di pane, doveva
sottostare ai suoi ordini, come tutti i sagrestani, anche se,
secondo me, qualcosa proprio giù, non gli andava.
C'era un ottimo rapporto tra i due, nonostante qualche
diffidenza. Don Cirillo, che all'epoca non era né giovane, né
vecchio, ma a me bambino pareva già anziano, era abbastanza
autoritario. Sorrideva serio ogni tanto, ma non più di tanto.
In chiesa bisognava stare seri, non distrarsi un attimo. Era
capace di richiamare giovani ed adulti e ne sapevano qualcosa
i chierichetti, che si buscavano certi ceffoni, e non solo
durante la messa.
Ricordo una volta che lo vidi all'opera, in diretta. A me, che
stavo sempre in piazza dai miei nonni, mi era venuta voglia di
fare il chierichetto. Complice di questa mia vocazione furono
i biglietti omaggio che Don Cirillo dava ai chierichetti per
entrare gratis al suo cinema "San Vitale" in Piazza Municipio.
Più di biglietti veri e propri, si trattava di ritagli di
locandine dei film con la firma di Don Cirillo apposta sopra.
Mi dissero vieni domani pomeriggio alle due in chiesa,
all'adunanza, ed io andai. Era d'estate e la navata della
chiesa era illuminata da fasci di luce dei raggi del sole, che
entravano filtrati dai finestroni. C'erano tutti i
chierichetti seduti sui banchi in prima fila e mi sedetti
anch'io. Dopo un po' arrivò Don Cirillo, che con il suo
vocione, con accento veneto, farfugliando qualcosa, iniziò a
prendere, senza motivo apparente, alcuni chierichetti a sonori
schiaffoni, che amplificati dal riverbero e dall'eco della
navata vuota, facevano pa-pa-pa-ah-ah-ahah!
Pensai in mente mia, non mi rivedrà mai più, temendo che anche
la mia nuca, prima o poi, avrebbe fatto lo stesso rumore. E
così fini' la mia vocazione di chierichetto mancato e chissà,
forse anche di prete mancato.
Chierichetti.In prima fila da
sinistra: Nicola Artese, Domenico Ciuffi, Raimondo Artese
(futuro Don Raimondo), Luigi Piscicelli, Ivo Balduzzi. In
seconda fila da sinistra: Elio De Francesco, Nicola
Baldassarre, Erminio Cardarella, Michele Domenico Ciuffi,
Oreste Marzocchetti, Antonino Artese e Giovanni Artese.
Ma quel rumore di schiaffi, non finì lì. Mi risuonò nelle
orecchie ancora per qualche tempo. Dovevo fare la prima
comunione e marinai il catechismo, sino a quando mio padre non
se ne accorse, portandomi all'asilo di Via Firenze, da poco
costruito, dove le monache mi prepararono per l'esame, che
superai brillantemente. Ad interrogarmi fu proprio da
Don Cirillo, che serio serio mi fece delle domande,
soffiandosi, ogni tanto il naso, che mi parea un trombone,
avvolto in un fazzolletto bianchissimo, che gli fungeva da
sordina, e meno male.
Tornando ai sonori schiaffoni, peggio era andato al mio Tonino
Longhi, che era più grande di me di 17 anni. Mi raccontò che
quand'era bambino, anch'egli aveva fatto il chierichetto
insieme ad alcuni suoi amici. Aggiunse che lo facevano così,
giusto per farlo. San Salvo all'epoca non offriva nulla ai
bambini e fare il chierichetto, era un modo anche di
divertirsi, giocando a vestirsi da prete. Erano però tutti
discoli e così una sera, nel periodo di Pasqua, mentre Uggénie
suonava e tutti i fedeli, in coro, cantavano la canzone
"Gesù mio, con dure funi", essi pensarono di interpretarla a
modo loro, confidando che il suono dell'organo ed il coro
avrebbe coperto le loro voci ed invece. La cantarono con
questo testo: "E Ugge-e-nie, coccia pi-la-a-te, lu
scardavone, ze l'ha magnate".
La canzone dei
chierichetti
Poveri illusi. Se ne accorse Don Cirillo, che li prese ad uno
ad uno per un orecchio e li trascinò sino ad una porta a
fianco dell'altare, buttandoli, in rapida successione, a calci
nel sedere, per le ripide scale. Erano quelli, metodi
educativi in uso in ogni dove:a casa, a scuola, e quindi anche
in chiesa.
Quella canzone sfottò, invece, derivava dal fatto che Eugenio,
soffriva a periodi di una malattia, un' allergia, che gli
procurava bernoccoli (vuzze e contravuzzescrepìte),
un evidente eczema lacerante sulla sua testa pelata, su cui
c'era un solo capello, al massimo due, e per questo motivo
qualcuno gli aveva affibbiato il soprannome de lu
scardavàune dell'orte (scarafaggio dell'orto), a
significare che erano stati gli scarafaggi, che vivevano negli
orti, a rodergli il cuoio capelluto.
Foto di Ida Candeloro, tratta
da Facebook. Nella foto è visibile la porta a sinistra,
che collegava la zona dell'altare con il piano sottostante
con una scala. Il corpo scala venne riempito con materiali
di risulta del vecchio campanile nei primi anni'60,
durante i lavori di ampliamento e ristrutturazione della
chiesa.Da lì Don Cirillo per punizione lanciò i
chierichetti Tonino Longhi ed i suoi amici. Dietro la
porta vi è Vitale Di Gregorio, uomo molto religioso,
autore dei simboli pasquali che seguivano la processione
del Cristo morto.
E restando nel campo dei ceffoni, uno, bello assestato, se lo
buscò purtroppo anche Eugenio ed a darglielo non fu Don
Cirille, ma Biscarille (diminutivo di Besca).Eravamo
nel '48 e la lotta politica a San Salvo, tra comunisti e
democristiani, era durissima. Tutto iniziò quando iniziarono
dure contestazioni in piazza durante il comizio del Sen.
Giuseppe Spataro, che fu costretto ad interromperlo a causa di
gravi incidenti. Vi fu un fuggi fuggi generale, di cui
rimasero vittime molti vastesi che erano venuti a sostenere il
loro compaesano Spadaro a San Salvo. Il povero Spadaro, tra la
folla, dentro la sua Topolino, si buscò un grosso sasso sulla
cappotte dell'auto, che glie la sfondò. Eugenio, forse perchè
qualcuno glie lo aveva detto, correva con un mazzo di fiori in
mano verso il Calvario, sperando di raggiungere la Topolino in
fuga di Spataro, per fargliene omaggio. Ma ahimè... giunto
all'altezza del Bar Biondo in Via Roma, tra il fuggi fuggi dei
vastesi, che avevano gli autobus parcheggiati vicino al
Calvario, si buscò all'improvviso un sonoro sberlone, che fece
volare in aria Uggénie e titte (i fiori, Eugenio ed
il suo cappello).
Ed a proposito di cappello e di sberle, non so se fu sempre
quel cappello o un altro, ma pur sempre di un cappello di
Eugenio si trattava, che gli creò un imbarazzante episodio al
Monumento ai Caduti. Era il 4 Novembre e durante la
commemorazione dei Caduti di guerra, tra le autorità civili e
militari del paese, c'erano naturalmente anche Don Cirillo ed
Eugenio al suo fianco, nghe lu tragnetélle (con il
secchiello) dell'acqua santa in mano. Don Cirillo, durante la
cerimonia della benedizione della corona d'alloro, da
depositare sotto il Monumento, iniziò a recitare il Padre
Nostro: "Padre nostro che sei nei cieli...", quando si
accorse, con la coda dell'occhio, che Eugenio, durante la
preghiera, non si era tolto il cappello. Dopo avergli rivolto
qualche occhiataccia, cercando di farglielo notare, continuò a
recitare il Pater Noster "...sia santificato il tuo nome,
venga il suo Regno, sia fatta la Tua volon.....ta'...", quando
a la spruvvéste (all'improvviso)... bammt...
mollò una sberla al cappello di Eugenio, che schizzò in aria
come un piccolo disco volante impazzito tra la folla. Amen.
Nonostante qualche incomprensione tra di loro, Don Cirillo
però gli voleva un gran bene ad Eugenio, anche se gli affari
erano gli affari e spesso vi era qualche contrasto.
Mi raccontò mio padre, amico intimo di Don Cirillo, che spesso
andava a trovarlo nella vecchia casa canonica dell'allora
Piazza Munucipio, che una sera, si recò a fargli visita, e
trovò i due, Don Cirillo e Uggénie, indaffarati in
ufficio a fare i conti.
Don Cirillo, con una penna in mano, non si dava pace. Qualcosa
ai conti non gli quadrava. Aveva scoperto che sino ad allora,
aveva sbagliato a fare i conti, pagando sempre di più di
quanto spettasse ad Eugenio. Il patto tra loro era chiaro: per
ogni funzione religiosa, esempio un matrimonio o un funerale,
al prete toccava il 100% di una sua tariffa prestabilita,
mentre al sagrestano un'ulteriore somma del 30% di quanto
toccasse al prete. Esempio: se a Don Cirillo toccavano
100.000 lire, ad Uggénie un'ulteriore somma del
30% oltre a quella che toccava al prete, quindi 30.000
lire: totale da pagare 130.000 lire. A riscuotere era sempre
Don Cirillo, che poi pagava Eugenio. Ma quando Don Cirillo
doveva scorporare il 30% di 130.000 lire, i conti non gli
riuscivano: a Eugenio gli dava 39.000 mila lire, il 30% di
130.000 lire, e non 30.000 come egli pensava, e questo fatto
lo aveva mandato in confusione. Don Cirillo, aveva riempito la
scrivania di fogli di carta con i conti, che faceva e
rifaceva, ma il risultato era sempre lo stesso, per la
felicità di Eugenio, che gongolava. Ed ecco all'improvviso
arrivare mio padre: "Evaristo! Evaristo!" gli disse Don
Cirillo." Aiutami un po' tu a fare questi conti", e gli spiegò
il problema. Mio padre, gli rispose: "Don Cirillo, è facile.
Fai così: 130.000 lire diviso 1.30 e otterrai l'importo a te
spettante. Ad Eugenio darai ciò che rimane".
"Scie'! Scie'! Faciate vi' le chinde!" (Si! Si! Fate
voi i conti voi), se ne uscì Uggénie a quel
punto, quando si accorse che la faccenda per lui si metteva
male. Poi aggiunse: "Le saccie je' gna ze fa le chinde!"
(Lo so io come si fanno i conti).
Effettivamente Eugenio i suoi conti, giusti o sbagliati, se li
sapeva fare. Oltre a fare il sagrestano e con alterna fortuna
anche il calzolaio, arte che aveva imparato da giovane,
fungeva, per incarico del Tribunale di Vasto, da Ufficiale
Giudiziario, notificando le citaziune (le citazioni)a chi non pagava qualche debito.
Per questo motivo vi era un detto popolare a San Salvo: "Ue'!
Mo te manne Uggénie", che era una minaccia di un
creditore verso un debitore, a significare che se non avesse
saldato a breve il debito, sarebbe arrivato Eugenio per
notificargli una citazione.
E di questo detto popolare, un giorno, rimase vittima anche lo
stesso Eugenio.
Successe che Mastro Luigi Firpe (Di Iorio), gli aveva
cucito un vestito ed Eugenio tardava a pagarlo. E così un
giorno Mastro Luigi, vedendolo passare dinanzi alla sua
bottega, che stava vicino alla chiesa, uscì fuori, e com'era
solito fare, si prese una pizzicata: "Uggie'! Uggie'!"
(Eugenio! Eugenio!). Eugenio si avvicinò e Mastro Luigi
gli disse: Te vu' 'bbusche' caccusuarélle?" (Eugenio,
vuoi buscarti qualche lira). "E' gn'aja fa?" (E come
devo fare?), gli chiese Eugenio. "Gna da fa? Fatte 'na
citaziàune a ta stàsse" (Come devi fare? Fai una
citazione a te stesso).
Che personaggio era Uggénie lu sacrastane.
Era unico. Era Uggénie lu sacrastane e basta. Il fatto
che portasse le citazioni in paese, non significava niente: il
suo mestiere era il sagrestano. Non so chi gli avesse dato
quell'incarico di mezze scirreche purtave le
carte (mezzo usciere che portava le carte), così
dicevano i sansalvesi, ma sembrava più un compito che si era
trovato a fare lì per caso, un mondo che non gli apparteneva.
Il suo mondo era la chiesa. Figlio di Zi Carminiccie lu
sacrastane, sin dalla nascita aveva respirato aria di
chiesa e tra statue, crocifissi ed acqua santa, era già
sacrestano sin da bambino.
Non poteva fare altro da adulto Eugenio De Francesco, se non
il sagrestano, e lo faceva bene. Si spezzava la schiena a
suonare le campane, ma nessuno gli diceva bravo, neppure
quando, con diecimila rintocchi, spezzava le nuvole nere e non
grandinava sulle misere coltivazioni dei sansalvesi. Una volta
lo videro volare per un secondo fuori dal campanile, che aveva
un finestrone al piano primo, dove vi erano quasi sempre
attorcigliate sul pavimento, le lunghe corde delle campane.
Preso dal vigore, lo videro aggrappato alla fune, fuori da
quel finestrone, per poi rientrare dentro, ritirato dalla fune
stessa, che risaliva dopo averla tirata.
"Uggénie z'ha cápate n'árta liggìre" (Eugenio ha scelto
di fare un'arte leggera), diceva la gente, vedendolo camminare
dondolante, alzando un po' i piedi, ma non era così.
Sembrava facile fare il sagrestano, ma non lo era. Bisognava
svegliarsi presto al mattino, all'alba per suonare le campane;
tenere in ordine la chiesa, suonare l'organo, cantare;
accendere le candele ad ogni messa, ad ogni matrimonio, ad
ogni funerale; rispegnere le candele per non farle
consumare; risuonare le campane a mezzogiorno per dire che era
giunta l'ora di mangiare, risuonarle ancora alla ventunora, al
Vespro, alle novene di Pasqua e di Natale. E poi con il prete
accompagnare il morto al cimitero; e poi con il prete andare
dietro le processioni di Sande Vete e Sant'Andonie, de
Sanda Necole, de Sandrocche, del Sacro Cuore di
Gesù,e de Sande Vitale. E come se non
bastasse, portare le citazioni a la gente e sentirla
bestemmiare.
Era una vitaccia, la vita di Uggénie lu sacrastane.
Ma nessuno gli diceva bravo, nessuno gli faceva nu
sbattamane(un applauso), neppure quando si
spezzava la schiena e spezzava le nuvole.
"E chi ci vo' a suna' le cambane!" (E cosa ci vuole a
suonare le campane!)
Se ne andò come un uomo qualsiasi, un giorno qualsiasi, un
attimo prima che arrivassero i Re Magi.
Era il 3 Gennaio del 1970.
Gilde la sacrastane (Gilda Mirolli), vedova di Lueggiè
lu sacrastane (Luigi De Filippis), suonò per
lui la campana.
L'organo? Pianse in silenzio.
Morte nu sacrastane se ne fa n'andre.
Fernando Sparvieri
26 Settembre 2021
Per chi volesse approfondire
Video
Uggenie lu sacrastane
Video
Come suonava l'organo Eugenio
Video
Za' Moneche
NOTA
Eugenio aveva un fratello,
il cui nome era Emilio. Veniva chiamato dai sansalvesi Emilie
lu sacrastane, per via del fatto che il padre Zi
Carminiccie, era stato anch'egli sagrestano. Era un
appellativo di famiglia. Democristianissimo ed attivista
del partito, insieme al suo migliore amico Pierine de
carruzzire (Pierino Fabrizio), sicuramenteall'occorrenza era in grado anche di fare il
sagrestano, ma faceva l'agricoltore. Nel suo orto,a
fianco alla casa di Eugenio in Via Savoia, coltivava i
papaveri. Li faceva esiccare al sole e poi li vendeva alla
gente che andava a casa sua acomprarli. Nghe
le cucciutélle dei papaveri, che si gonfiavano come
pallachicche (come palline) dopo che si esiccavano,
messi a bollire, la gente ci faceva la papagne, un
decotto che era una droga, ma nessuno lo sapeva. Era 'na
cosa sante (un rimedio efficace) per far dormire i
bambini che avevano scagnite la notte pe lu jurne (scambiata
la notte per il giorno), cioè non dormivano. Lo diedero
anche a me. Vi furono bimbi che dormirono per tre giorni
di seguito ed io per un paio, da ciò che mi raccontarono.
I racconti di Fernando Sparvieri
Indice Gente, usi e costumi del mio paese
Un libro sul web MA CHI SAREBBERO LI SALVANESE
di Fernando Sparvieri
Indice I forestieri a San Salvo
I racconti del mare
I pionieri del mare ed altro
di Fernando Sparvieri Indice Emilie de Felicìlle
(Emilio Del Villano)