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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi








Donna
(Fatterelli)

di Fernando Sparvieri





"Z'è fijéte l'asene".

"C'ha fatte?"

"Donna!"

Non me ne vogliano le signore, alle quali va tutta la mia stima, la considerazione e l'affetto per il solo fatto di esistere. Non sono un maschilista. Amo le donne più di me stesso. Anzi le ritengo le più belle, meravigliose e migliori creature della natura e non mi dilungo oltre per non incorrere in banalità e smancerie molto di moda sopratutto da che Facebook è Facebook.

L'aneddoto mi è servito solo per parlarvi ancora una volta del dialetto e di taluni modi di dire che hanno caratterizzato il linguaggio di un mondo contadino che non c'è più.

Come ho avuto modo di scrivere in altre circostanze, sino alla metà del secolo scorso, ma anche oltre, i vari dialetti paesani e regionali, erano le lingue madri della gran parte del popolo italiano. L'unificazione d'Italia, almeno quella linguistica, è avvenuta all'incirca un secolo dopo lo storico incontro tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi a Teano, e gran merito va alla televisione, che con i suoi pregi ed i suoi difetti, dai primi anni '60 in poi, ha insegnato almeno ad orecchio, così come succede quando non si studia musica, come si parla in italiano.

A tal proposito, parlando dei pregi e difetti della televisione, diceva mio padre, Evaristo Sparvieri, maestro elementare di vecchio stampo: "La televisione sta diventando sempre più una cattedra di diseducazione", riferendosi a taluni films di violenza, rapine, omicidi ecc., nel senso che fa avveda' gna ze fa (fa vedere come si fa)" (cioè insegna nella finzione, tecniche per compiere crimini di ogni genere), "ma è innegabile", concludeva, "che ha svolto una funzione educativa e culturale, sopratutto nel fare apprendere la lingua italiana al popolo italiano, prima abituato a parlare quasi unicamente in dialetto dalla Sicilia alle Alpi".

La lingua italiana, per molti anziani nati nella prima metà del secolo scorso, quando la scolarizzazione di massa non ancora iniziava, era quindi una specie di "nemico numero uno", una seconda lingua, straniera, che induceva molte gente, semi analfabeta, a stare in silenzio al cospetto di persone istruite, per timore di sbagliare. Ne derivava che la gente si sforzava di parlare in italiano solo quando non ne poteva fare a meno, dando vita al cosiddetto "taliano", un linguaggio in cui le "i" e le "o" fuori luogo si sprecavano, che nasceva dalla traduzione simultanea della parlata dialettale in un italiano maccheronico.

Mi diceva zio Mimì, che si rendeva conto di questa sua lacuna: "Canda vaje a 'n'uffecie a lu Vuaste u a Chijte, canda vulésse parlà, ma me stinghe zette pe ne fa' britta fihíure (Quando Vasto ad un ufficio o a Chieti, vorrei tanto esporre la mia opinione, ma poi mi trattengo dal farlo, per timore di fare brutta figura).

"Io vada", disse un giorno Palazzutte, componente del comitato feste a degli orchestrali che dovevano suonare alla festa di San Rocco negli anni '70. Poi, prima di andare via, concluse in italiano quasi perfetto dicendo: "Se avete qualche "diffacoltà" fatemelo sapere".

"E' la fortuna dell'uomo umani!", diceva invece ze' Véte, imprecando contro la malasorte, volendo dire che l'uomo è nato sfortunato.

Ma perchè ze' Véte diceva l'uomo umani?

Probabilmente questa sua precisazione nasceva dal fatto che in dialetto la parola hómmene (uomo) veniva usata per indicare il maschio sia degli uomini che degli animali.

C'era ad esempio lu fèje hommene  (il figlio maschio), ma anche lu cane  hómmene (il cane maschio), la hatta hómmene (il gatto maschio, in dialetto sansalvese il gatto va sempre al femminile), l'asena hómmene (l'asino maschio), chiamando impropriamente "uomo", appellativo che in italiano spetta solo alla razza umana, anche i maschi di molti animali. 

E ze' Véte, volendo distinguere la razza umana dal resto di quella animale, diceva: "La fortuna dell'uomo umani", cioè aggiungeva a uomo anche "umani" per far capire che non stava parlando di cani, gatti e asini maschi, ma del maschio dell'uomo.

La parola fàmmene (femmina) invece, in dialetto pareva averla fatta franca.

Sino a quando, non interveniva "il taliano".

"Lu mua'!" (Maestro!), disse un giorno nu lavurante (un apprendista) al suo mastro calzolaio Nicola Sabatini. "Le si' ca jnnótte z'è fejete l'aséne ma'?" (Lo sai che questa notte è partorita la mia asina?)

"E c'ha fatte hómmene u fammene?" (Ha partorito un maschio o una femmina?), gli chiese il mastro.

"Donna", gli rispose.

8 Gennaio 2022







I racconti di Fernando Sparvieri

Indice

Gente, usi e costumi del mio paese



Un libro sul web

MA CHI SAREBBERO
LI SALVANESE

di Fernando Sparvieri

Indice

I forestieri a San Salvo



I racconti del mare

I pionieri del mare ed altro


di Fernando Sparvieri
Indice

Emilie de Felicìlle
(Emilio Del Villano)















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