Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri
Ma chi sarebbero li salvanése
I racconti di Fernando
Sparvieri
Un po' di storia locale raccontando personaggi
Sande
Salve bbèlle
(In sala di registrazione - anni '80)
(Fatterelli)
di Fernando Sparvieri
Leone Balduzzi, si sa, era un leone di nome e di fatto: un
vero istrione, nel senso moderno della parola, alla Charles
Aznavour, tanto per intenderci.
Ogni qualvolta che creava un'opera, come fanno i veri artisti,
non se la teneva per sé, ma gli piaceva che arrivasse ai suoi
amici, vicini e lontani, persino in Australia. Fu così con la
pubblicazione dei suoi libri e delle sue canzoni.
Ricordo un giorno al mare, alla Caravella, sotto l’ombrellone,
mi disse: “Fernà! Ti’ ‘na chitarra bbone?” (Fernando,
hai una buona chitarra?).
Gli risposi di sì. Avevo da poco acquistato una Ovation, una
chitarra americana, come quella che usava Pino Daniele.
Costava un occhio della testa, un milione di lire. Solo il
fodero mi costò 270 mila lire.
“Mi servirebbe”, mi disse. “Avessame je’ a Pescare, a
registrà a ‘na casa discografeche “Sande Salve bbelle” e
eddre canzìune, ma la chitarre che sone Umburtúccie né è
bbone. Vulésse fa' 'na casciàtte. Le faccie vànne
doppe a Angioline, a lu musée de la Porte de la Terre”.
“E cánda játe?”, gli chiesi.
“Lunuddué dóppe mezzejúrne”, mi rispose.
“Vínghe pure jé”, gli dissi.
“Pu mené’ nghe Angiúline Lúnghe”, mi disse lui.
“Pecca’ ve’ pìure Angiúline?”, gli domandai.
“Sciè”, mi ripose.
Il lunedì pomeriggio, verso le 14:00, presi la chitarra ed
aspettai dinanzi casa che venissero a prendermi. Avevo già
parlato con Ivo, il figlio di Leone, che avvisò Angelo
Longhi che sarei andato anch’io con loro.
Era d’estate e rinunciai a malincuore ad un pomeriggio di
mare, ma volli andare anch’io perché in vita mia non ero mai
entrato in una sala di registrazione. Stavo allestendo a
casa mia, pian pianino, una piccolo studio di registrazione,
amatoriale e mi incuriosiva di vedere e capire come fosse
una vera casa discografica, professionale, quante piste
analogiche avesse il registratore (all’epoca non c’era
ancora il digitale), quali microfoni adoperassero. Insomma
mi attraeva.
Longhi arrivò puntuale, cosa per lui inusuale. Misi la
chitarra nel bagagliaio e partimmo. Naturalmente c’era anche
Ivo.
“Ive! Ma Balduzze addò sta?”, chiesi ad Ivo.
“Ha già partìute”, mi rispose. Poi aggiunse: “Ha
da passà préme a Urtàune ca ha da' jè a pejè’ Nino Canosa,
lu candánte. Sta pìure Olinde e zi' Umburtúccie
nghe hàsse. Pe quàsse stáma a jè’ nghe du’ máchene”,
mi spiegò.
Erano circa le tre del pomeriggio, quando arrivammo a
Pescara. Faceva un caldo tropicale e la gente stava tutta in
costume al mare. Le automobili non avevano l’aria
condizionata, ed il viaggio, con i finestrini aperti, non fu
proprio ideale.
“Ive”, chiese Angelo Longhi ad Ivo, “ma addò sta
‘ssa casa discografiche”.
“Sta sul lungomare, verse Montesilvane”, gli rispose
e gli indicò pure il nome della via.
Ma non c’era bisogno che glie lo dicesse. Balduzzi aveva
previsto tutto. Aveva lasciato zi' Umburtúccie, il
chitarrista, all’ombra di un grosso pino del
viale del lungomare, all’imbocco di una stradina, a
sinistra, andando verso Montesilvano, in modo che noi, al
nostro arrivo, potessimo vederlo e capire che eravamo
arrivati.
E così accadde . Mentre andavamo piano pianino, con
l’automobile, per leggere il nome della via, ecco
all’improvviso pararsi dinanzi a nostri occhi zi'
Umburtúccie". Ci aveva visti e elle ze sbraccijéve.
“Gére! Gére aécche”, faceva segno ad Angelo con la
mano. Era uno spettacolo vederlo come si era vestito. Z'avé'
arcagnáte gné nu pupulàlle. Paràve ch’aveva jè' a 'na
spóse: camicia nuova bianchissima, cravatta, pantalone
nero e scarpe lucidissime, meglio di un testimone di Geova.
Era logico che si fosse vestito così elegante: aveva jé
a Pescare.
Eravamo arrivati.
Angelo e Ivo entrarorono subito. Io mi fermai fuori, vicino
alla porta d'ingresso, a fumare una sigaretta. Balduzzi e
Olindo Palucci, entrambi mandolinisti, erano invece già
dentro.
Dopo un po’ entrai anch'io. Era una bella sala di
registrazione quella e mi misi subito a curiosare. C’era una
camera anecoica, per non far entrare i rumori da fuori
durante la registrazione, un registratore multipista con 48
piste, un mixer con altrettanti canali e poi, nello stesso
locale, una piccolissima camera in legno, insonorizzata, con
una vetrata che ridava nella sala principale, in modo che
chi vi era dentro potesse essere visto dal tecnico che era
al mixer e con lui dialogare. Dentro vi era montata una
sgargiante batteria.
Angelo, il batterista, era già lì dentro. Con la cuffia in
testa (ma quanto mai l’aveva vista) faceva già le prove con
il tecnico, per regolare i microfoni per la registrazione
della batteria.
“Bum, bum”, si sentiva attutito il suono della grancassa,
fuori, nella sala principale, con il charleston che si
sentiva appena ed il rullante pure. Doveva fare un caldo
bestiale lì dentro. Da dietro il vetro si vedeva Angelo, un
po’ accaldato, ma orgoglioso di poter registrare anch’egli,
per la prima volta nella sua vita, in una sala di
registrazione.
Stette lì mezz’ora, forse anche di più. Nulla da fare. Non
si riusciva ad amalgamare bene il suono della batteria con
quello della fisarmonica di Ivo, che serio serio, con la
cuffia in testa anch’egli ed un microfono dinanzi, suonava
nella sala principale. Gli altri, Balduzzi, Olindo e zio
Umberto, ammirati e disorientati da quelle attrezzature
elettroniche in sala, aspettavano che il tecnico del suono
dicesse loro che si poteva iniziare a registrare.
Il tempo trascorreva veloce ed era denaro. Un’ora lì dentro
costava 30 mila lire.
Venne presa una decisione drastica. Fuori Angelo, 1°
squalificato. Il trio Balduzzi, costituito da Leone al
mandolino, zio Umberto alla chitarra e Olindo Palucci al
banjo mandolino, in fondo non aveva mai suonato con un
batterista. Se ne poteva fare a meno. Avrebbero registrato
la base musicale solo loro tre, in presa diretta,
naturalmente con l’aggiunta della fisarmonica di Ivo.
Tirai fuori la chitarra dall’astuccio e la diedi a zi'
Umburtúccie, elegantissimo. Si sedettero al terzo
gradino di una specie di piccola gradinata rivestita in
moquette, che forse serviva quando doveva registrare un
coro. Ci volle un quarto d'ora per accordare i mandolini a
corista (la doppia corda "la" come al solito non si
accordava). Poi provarono tutti i microfoni che il tecnico
aveva messo dinanzi ad ogni suonatore e finalmente tutto era
pronto.
Il tecnico decise di fare le registrazioni in presa diretta
e non in multitraccia, più complicata. Facendo quest'ultima
avrebbero dovuto suonare, uno per volta gli strumentisti (ad
es. prima il chitarrista, poi la fisamonica, poi il
primo mandolino e poi il secondo per eventuali controcanti,
aggiungendo una traccia dopo l'altra). In presa diretta,
invece, i microfoni avrebbero ripreso tutti gli strumenti in
un colpo solo. A guidarli, durante la registrazione, sarebbe
stato il cantante Nino Canosa, che, senza microfono, avrebbe
fatto sentire loro le melodie delle canzoni, senza che la
sua voce venisse registrata. Poi, al termine della
registrazione degli strumenti, sarebbe tornato in studio,
solo lui, un altro giorno, per registrare la sua voce sulla
base musicale. Finalmente si poteva iniziare. Prima canzone:
Sande Salve bélle.
Il tecnico al mixer, con la cuffia in testa, fece segno che
si poteva cominciare.
“Allàure cuménze préme jè u cumìnze préme ti”, disse
Balduzzi a Zi’ Umbertuccie.
“Nàune”, gli rispose Zi’ Umbertùccie, “cumìnze
préme ti”. Olindo, l’altro mandolinista, li guardava
cercando di capire.
Ed ecco Balduzzi iniziare con il mandolino l’introduzione: “Drin,
drin drin…”, e gli altri, si accodarono.
“Stop”, disse il tecnico. “Ricominciamo. Non è andata bene”.
Balduzzi, lo guardò in faccia per un istante e poi si
rivolse di nuovo a Zi' Umburtúccie, il chitarrista,
dicendogli: “Allàure cumìnze préme ti 'sta vódde”.
“Vabbúne”, gli rispose Zi’ Umburtúccie.
“Drian, drian drian…”. Zi Umburtúccie diede
tre pennate sulle corde della chitarra, così tanto per far
sentire l’accordo di re maggiore in cui suonavano e poi
via...
Un disastro! Chi cominciava prima, chi dopo.
“Fermi tutti”, disse di nuovo il tecnico da quel concerto un
po' sconcertato." Così non va. Ricominciate daccapo".
"Olì'!", disse allora Balduzzi a Olindo Palucci,
l'altro mandolinista, "Allùre cumìnze ti". Nuova
partenza. Altro stop del tecnico. Ripartenza. Stop. Altra
ripartenza, altro stop. Parte ti ca parte jè,
parte jè ca pìrte tì, non si capiva niente.
Nel frattempo era più di un’ora che erano lì ed a Balduzzi
erano "sgrizzate" (partite) le prime 30 mila lire.
Poverini, non erano mai stati in uno studio di registrazione
e né tantomeno avevano mai fatto una prova con un comune
registratore a casa, così tanto per provare. La
registrazione di un brano non è cosa semplice: non perdona è
micidiale. Gli errori restano registrati sul nastro e non si
possono cancellare. L'unica cosa da fare è ricominciare
daccapo.
Mi accorsi che Ivo, con il quale io avevo suonato da sempre
da ragazzo, iniziava a tradire un po' di nervosimo. Secondo
me era lì dentro solo perchè glie lo aveva chiesto il padre,
altrimenti se ne sarebbe andato volentieri al mare o a
cavallo, di cui era grande appassionato. Diceva qualcosa per
trovare il bandolo della matassa, ma era come se gli
mancasse il coraggio di dire ciò che gli passava veramente
per la mente: qualcuno, del trio, amico del padre, poteva
prendersela a male.
Me ne uscii fuori a fumare. Pensai dentro di me, qui
facciamo l'alba e mi finiranno pure le sigarette.
Ero lì fuori a fumare, quando d'un tratto, ecco arrivare
Ivo, come una furia, con la fisarmonioca a tracolla. Mi fa:
“Fernà! Che cazze! Entre dàndre ti. Súne la chitarre”.
“E zi' Umburtúccie?”, gli chiesi, intuendo che
correva il rischio di diventare il 2° squalificato.
"Ne me ne fréche niende”, mi rispose tutto scocciato.
“Vi’ dàndre pe’ piaciàre”.
Non sapevo che fare. Lo seguii con un po' di imbarazzo e
rientrai in sala.
Zi’ Umbertúccie, appena mi vide, senza dire una
parola, mi passò la chitarra, mentre Balduzzi e Olindo, in
silenzio, guardavano con gli occhi per terra, fissi sul
pavimento di moquette.
Ero confuso. Non sapevo che fare, né che dire.
"Zi’ Umbúrtù'!, gli dissi così tanto per dire qualcosa.
"Ma che fi’ ne' 'nsúne?”.
“Na, na”, mi rispose. “Súne ti!”.
"Ma dai!", insistetti cercando di indorargli la
pillola.
“Na, na”, mi rispose di nuovo. “Súne ti!”.
Che dovevo fare? Oramai la frittata era stata fatta.
Feci finta di niente e prima di cominciare a registrare
dissi agli altri: “Ué! Aècche la préma cose ca ma fa’,
ha ma partè’ tutte 'nzímbre e ha ma fené tutte 'nzímbre.
Ne è ca une parte preme e n’andre doppe. Perciò mettàzeme
d'accórde mo, gnà hama cuménzà' e gnà hama
fené'. Je’, nghe la chetárre ve fáccie da benárie, da véja
nóve. Vi seguéte lu ritme de la chetárre e la vàucie de lu
cantande."
Poi aggiunsi prima di concludere: "Pe partè’ tutte
'nzimbre je’ cànde féne a trà (tre). Ve faccie:
un-due-tre, e partéme. Vabbune?". Mi dissero di aver
capitoe dopo aver provato solo l'attacco e la fine
della canzone, ci mettemmo pronti per registrare Sande
Salve bbelle.
Il tecnico ridiede il consenso ad iniziare.
“Un-due-tre. Drin drin drin drin drin drinnnn”,
partenza perfetta. Il cantante cantava senza microfono e
guidava la melodia, mentre io con la chitarra il ritmo.
Giungemmo finalmente alla fine della canzone. Perfetto, per
modo di dire. In tre minuti “Sande Salve belle” era
stato bello e registrato, a primo colpo.
Mi dispiaceva, però, che Zi' Umburtúccie non avesse
suonato. "E che diamine?", pensai dentro di me. "E' venuto
sin qui a Pescara, tutte bbelle arcagnate! E adesso
non lo fanno manco suonare?".
E così, tanto per non squalificarlo del tutto e farlo
rientrare, almeno psicologicamente, in gioco, gli dissi: “Mo
però, Zi' Umburtù', arsúne ti”.
“No! No”, mi rispose ancora: “Sune ti”.
Cosa dovevo fare?
Ci rimettemmo d’accordo sull'attacco e finale della seconda
canzone e riattaccammo.
Perfetto. Dopo tre minuti, anche la seconda canzone era
stata registrata.
Ero felice per il risultato, ma non riuscivo a togliermi
dalla mente la delusione che si leggeva in faccia a Zio
Umberto. Che figura barbina stava facendo, lui che era il
chitarrista titolare, acclamato da tutti in paese, durante i
canti del "Sant'Antonio e del "San Sebastaiano". Tentai una
sua riabilitazione, sperando che avesse capito come fare.
Zi’ Umburtù'”, gli ridissi ancora una volta. “Mo
arsúne ti”.
“Nàune, nàune, súne ti”, mi rispose per l'ennesima
volta.
Gli dissi: “Zi' Umbúrtù'! Ma allàure che ci si menìute a
fa' aécche”.
Non glie lo avessi mai detto. “Quàsse j vulàsse déce jé a
quésse. Quàsse j vulàsse déce jé a quésse”, si fece
uscire il rospo, rivolgendosi a Balduzzi.
“Ma mo, Umbué’!”, gli disse Balduzzi, anch'egli
imbarazzato e con tono di voce remissiva, ”Quésse Ive è
abbettuate a suna’ nghe Fernande. Je mo ch'aja fa'?”,
si giustificò.
Ed intanto il tempo passava. Povero Balduzzi. Se n'erano
andate minimo in totale 60-70 mila lire.
La registrazione di altre canzoni scivolarono via una dietro
l’altra. Fuori si era fatto buio ed avevamo registrato solo
il lato A della musicassetta. Il tecnico, che era di
Pescara, ci disse che era "tempo di migrare". La
registrazione del lato B era rinviata a data da destinarsi e
riuscimmo fuori, a "riveder le stelle".
Ripartimmo. Balduzzi per strada si fermò e ci offrì una cena
in un ristorante sulla Statale 16 a Marina di Torino di
Sangro. L'ora era tarda e mangiammo un po' tutti con
appetito. Solo Zio Umbertocanda jáve
pezzechénne, mangiò pochissimo.
Gli chiesi: "Zi' Umbúrtù, ma mìgne poche?". Mi
rispose: "Lu stómmeche! La sàre magne póche. Si' gnà è: a
'na certa età lu stómmeche!".
Secondo me, j z'ave' chìuse lu stomméche.
Ed arrivò il giorno in cui si doveva tornare a Pescara, per
ultimare le registrazioni. Zio Umberto non venne: problemi
di stomaco.
Rientrammo in sala di registrazione. Oramai eravamo esperti.
In 3 ore (altre 90 mila lire) finimmo la mmasciáte:
le basi musicali erano state tutte registrate. Ora Nino
Canosa, il cantante ortonese, che come Fred Boris,
a Milano, incideva dischi di folclore abruzzese, poteva
cantare sulle basi musicali registrate e la registrazione
della musicassetta era bella, per modo di dire, e terminata.
Il sogno di Balduzzi si stava avverando.
E zio Umberto?
Non lo avevo più incontrato, da quel giorno a Pescara. Era
sparito dalla superficie terrestre (così scrisse nel
suo rapporto al capitano Ujérme Lúnghe, quand'era
caporale sotto le armi, quando punì un soldato perchè si era
arrampicato su un albero e quindi non toccava più con i
piedi per terra).
Ed ecco un bel mattino, mentre percorrevo in automobile Via
de Vito, scorgerlo con la coda dell'occhio dinanzi
all'edificio della Scuola Elementare. Sua moglie Ida era
entrata al negozio di frutta e verdura di Parthalláre e
lui la stava aspettando lì dinanzi.
Mi fermai.
“Ciao zi’ Umburtù', gna sti? Sti bbóne? Gnà va lu
stomméche”, gli chiesi.
“Ngrazie a De’! Vista l'età, ne me puzze lamendà’”,
mi rispose.
E poi, volendo rigirare la pizza e fare apparirgli una sua
scelta il fatto che non avesse suonato quel giorno a
Pescara, sperando che gli risollevasse di morale, gli dissi:
“Ma peccà che lu júrne a Pescáre 'nze vulìute sunà?”.
“Jè n’aje vulìute sunà’! Jè n’aje
vulìute sunà’! Ne m’hanne fitte sunà’, mi
rispose calmo calmo, com'era nel suo carattere. E poi, quasi
a volersi togliere un sassolino dalle scarpe, mi disse: "A
quelle! A Balduzze! J l’aja ambarìte jè tutte le canziune
che canàscie e mo ze' Umburtúccie n’è bbóne. N'è bbóne
chij!”.
Poi, riferendosi a me, diede un colpo al cerchio ed un altro
alla botte dicendomi: “Je’ le saccie ca ti la chitarre le
si’ sunà chiù de mà. Però j vulàsse dece a tà:
che cazze se fatte ti chiù de mà?”.
Povero zio Umberto, aveva accusato il colpo. Il male allo
stomaco non gli era del tutto passato. Dopo decenni di
onorata carriera il suo onore, di vecchio maestro di
chitarra, era stato messo per la prima volta in discussione
.
“Zi Umburtù’!", gli dissi cercando di tirarlo
su di morale, "Si che déche jè. Orama’ quàlle ch'è fatte
è fatte. A ma ne me ne fréche niende se sàprue a la
casciàtte ci scrévene lu nome me. Si che faciàme”, gli
proposi: “Jè mo parle nghe Balduzze e j déche ca sàprue a
la casciàtte invece da scréve lu nome me, ocche ci scréve
lu nome to”.
“Eh! Direi”, mi rispose.
Audio Sande Salve bbélle
Video
Il trio Balduzzi, De Filippis, Palucci
a TMG
(Tele Masciale Gaetano)
Video
18
Settembre 2022
I racconti di Fernando Sparvieri
Indice Gente, usi e costumi del mio paese
Un libro sul web MA CHI SAREBBERO LI SALVANESE
di Fernando Sparvieri
Indice I forestieri a San Salvo
I racconti del mare
I pionieri del mare ed altro
di Fernando Sparvieri Indice Emilie de Felicìlle
(Emilio Del Villano)