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Ogni mondo è paese, ma il mio paese è il mio mondo.
Fernando Sparvieri







Ma chi sarebbero li salvanése

I racconti di Fernando Sparvieri



Un po' di storia locale raccontando personaggi








Evaristo Sparvieri
A Lendélle
(A Lentella)

(Fatterelli)

di Fernando Sparvieri





Racconto scritto nel centenario della nascita di mio padre,
il maestro elementare Evaristo Sparvieri



Alla ricerca dei SS.Cosma e Damiano
 



Dopo l'esperienza palmolese, l’anno successivo, nel '57, mi toccò andare a Lentella.

Mio padre riottenne un trasferimento a la Uardióle (C.da Guardiola), una frazione del Comune di Fresagragrandinaria ad un tiro di scoppio da Lentella, dove era già stato ad insegnare in gioventù. Mia madre, invece, anch’ella maestra elementare, all’epoca fuori ruolo, ebbe un incarico annuale a Lentella capoluogo.

Andammo ad abitare in Via Roma, in una casa di una brava famiglia che di cognome faceva Cianci, che era ubicata appena smonta la salita.

Era di proprietà di Gine lu ferrarille (Gino il fabbro). Sua moglie, una brava signora, si chiamava Amalia ed aveva due figli maschi: Evandro, già giovanottino, che faceva come il padre il fabbro in piazza, e Oscar, il secondogenito, che andava a scuola.

Ricordo che a fianco a quella casa, c’era nu capescale (una scala esterna) in cui abitava una famiglia che i lentellesi chiamavano Niciarélle, simile ad un soprannome di un mio futuro dirimpettaio sansalvese, nella casa che stava finendo di costruire mio padre a San Salvo, in Via Savoia. Non era un appartamento vero e proprio quella nostra residenza a Lentella. Era 'na camere de case, che oggi chiamano in un modo di lusso: monolocale. Per una famigliola come la nostra, composta da padre, mamma e prole, che poi ero solo io, stavamo un po' stretti, ma in compenso potevamo muovere la testa a destra e a sinistra. Non ricordo bene dove fosse il bagno. Forse era fuori, dalla porta. A me bambino di quattro anni, facevano fare la cacchina in un pisciatore di zinco smaltato bianco scucchiulujéte (era saltato in qualche punto lo smalto) e poi, con quello in mano, uscivano fuori dalla camera, recandosi forse in un bagno adiacente alla porta, che stava sul ballatoio delle scale.

In compenso però c'era una bella camera da letto, con la Madonna sulla testa, un bel fornello nuovo per cucinare e naturalmente 'na bella banghe (un bel tavolo), multiuso, meglio di 'na cucéna 'merrecáne (una cucina componibile). Nonostante la presenza della Madonna in quella camera, un mattino successe un brutto incidente: mia madre, alzandosi per andare a scuola, poggiò accidentalmente un piede su una 600 Fiat grigia, affracchénnele (distruggendola con il suo peso). Era la mia prima macchinina giocattolo di cirologgiche (di cerolodie), una novità per quei tempi, e gli si ruppe la cappotte. Ci rimasi davvero male nel vedere quella mia automobilina coinvolta in quel brutto incidente. Non vi fu carrozziere nei paraggi in grado di ripararmela. Restò una 600 decappottabile a vita. Pazienza.

A parte questo incidente, che fortunatamente si risolse senza feriti gravi (a mia madre uscì solo un pò di sangue al tallone di Lidia, così si chiamava la mia mamma), quell'anno scolastico a Lentella fu per me determinante per la mia crescita sociale e culturale. Lentella era un paesino, piccolo, a misura d'uomo, anzi direi a misura di bambino. I miei genitori, per questo motivo, mi mandavano, senza alcun timore, a comprare da solo la pasta da Za' Amalia, un negozietto d'alimentari che vendeva anche le sigarette, che stava sulla strada a fianco della casa in cui abitavo. Lì, via Roma, restringeva un pochino, proprio a causa della casa in cui eravamo in affitto, che per metà stava mmezze a la ve' (im mezzo alla strada), gnè Marcofene 'mmezze a lìune (come Marcofono in mezzo alla luna).

Quell' anno di villeggiatura a Lentella non me la passai tanto male. Facevo il signorino. In pratica, ad eccezione di quando mi mandavano da Za' Amalia a comprare la pasta, la mortadella, e qualche volta, quando finiva, anche il sale, me la spassavo.

Mio padre, infatti il pomeriggio, quando tornava da la Uardióle, mi portava a spasso per tutta Lentella e mi faceva anche da Cicerone.

"Cua' è la Repe" (Questa è la Rupe), mi diceva. La Ripe, come dicono i lentellesi, era nu durrupatúrie (un dirupo) alto qualche centinaio di metri, dalla cui sommità si scorgeva mezzo mondo. Mi diceva: "Là sta San Salvo". Io guardavo in direzione del suo dito, ma vedevo poco niente. San Salvo era ancora 'na squécchie (piccola, come un escremento di gallina) e si vedeva da lontano qualcosa che mi pareva un pollaio.

Poi aggiungeva: "Là sta Montalfane, là sta lu muàre, cua' è la Treste, a elle lu fijume".

"Come vedeva il fiume Trigno si avventurava in racconti bellici. Mi diceva:" Durante la guerra, quando gli inglesi bombardavano San Salvo dal ponte del fiume Trigno, io, insieme a tutta la mia famiglia, siamo stati sfollati a Lentella. Qua ci abitava una parente di San Salvo, Teresa Zaccardi, che era la moglie di Cumpuà Dionine (Cianci), a cui zio Antonino (suo fratello) aveva battezzati i figli. Siamo stati da loro più di un mese. In quel periodo non mi son tagliato mai la barba ed avevo una bella barba nera. Un giorno stavo qui, a la Répe, insieme a zio Antonino, quando da lontano abbiamo visto due soldati tedeschi che venivano verso di noi. Per non farci catturare séme calite (siamo scesi) abballe pe la Répe (giù per la Rupe), ze seme annusche dàndre a 'na rócchie (ci siamo nascosti in un anfratto nella roccia), ze séme calite le cazzìune (ci siamo calati i pantaloni), ze séme accucculìte (ci siamo accovasciati) e facevamo finta di cacare. I tedeschi passarono, non ci videro ed andarono via".

Io lo ascoltavo e li vedevo anch'io quei tedeschi che arrivavano e vedevo anche loro due, mio zio e mio padre, che sotta a na rócchie, stavano accucculìti, facendo finta di cacare e pensavo: "Ma questi erano proprio scemi. Se a uno di loro, in quella posizione a 35%, con i pantaloni calati, j scappave nu scardille (gli scappava una scorreggia) i tedeschi lo avrebbero sentito e risposto al fuoco. Meno male, pensavo, che non li scoprirono, sennò dovevano uscire allo scoperto, con le mani in alto, i calzoni calati, con i due fratelli fuori, cioè lui e mio zio, fuori da la rócchie."

Ma il giro di perlustrazione turistica non finiva lì. Terminata la visita rupestre, dopo aver passato sotto un arco, sopra il quale c'era una camera di casa, mi diceva: "Quà vicino abita commare Terese" e poi mi portava in Chiesa, dove secondo lui c'erano i due fratelli Santi Cosma e Damiano. Ma non c'erano mai. C'erano sempre gli stessi santi: Sant'Antonio e Santa Innocenza, che non fornivano indicazioni.

Il giorno appresso stesso giro, stessa corsa: a la Répe, là sta San Salvo, Montalfano, la Treste, il fiume Trigno, tornavano i tedeschi, lui e zio Antonino dentro a la rócchie, i pantaloni calati, i due fratelli fuori, e poi alla chiesa, ma dei fratelli SS. Cosma e Damiano, nessuna traccia. "Muahh", pensavo io, "vuoi vedere che sono stati catturati dalle SS, scambiati per i fratelli Sparvieri?".

Finalmente li ritrovò il 25 Febbraio in una chiesetta che stava sempre chiusa in piazza, dove non erano prigionieri dei tedeschi, ma del prete di Lentella. Gli faceva prendere tre giorni d'aria all'anno: il 25 febbraio, il 26 luglio ed il 27 Settembre. "Questi Santi", mi disse commosso rivedendoli, "si chiamano Sande Cosme e Damiane e sono fratelli cuggini (cugini) di Sande Vetale. Quando San Vitale faceva il compleanno venivano sempre a trovarlo a San Salvo ed anche San Vitale veniva a Lentella, quando lo facevano loro. Poi hanno litigato", e mi raccontava di quella lite tra santi, un vero peccato.

E poi continuava: "Sande Cosme e Damiane, sono bravi medici e fanno miracoli. Meglio di loro non c'è nessuno".

"Ma come!", pensavo dentro di me:"Allora dici pure le bugie?".

E mi tornavano in mente le sue parole quando parlava del dott. Federico Bontempo, con mia madre.

"Lidia!", le diceva: "Federico è bravissimo. Fa i miracoli. Meglio di lui non c'è nessuno".

Poi capii tutto. Innanzitutto il dott. Federico Bontempo, che era il medico condotto di Lentella, originario di Montenero di Bisaccia, che da giovane si era strasferito a San Salvo, era suo amico da una vita e poi sua moglie, Zia Lidia, così la chiamavo io, era una parente omonima di mia madre.

E' un po' complicata la vicenda di questa parentela con il dott. Bontempo, ma ve la renderò chiara. Mia madre, che come già detto si chiamava Lidia come la moglie del dottor Bontempo, era una nipote acquisita di Donna Emma la mamméne, la levatrice di San Salvo, da mia mamma chiamata Za' Cummuare (zia comare), essendo stata da lei anche battezzata. Za' Cummuare, di origini aquilane,  era la madre di Zia Lidia, la moglie del dottore, che aveva sposato Antonio Fabrizio, un fratello maggiore di mia nonna Maria, che rimasta orfana da bambina, era stata cresciuta da Za' Cummuare e da suo fratello Zi' 'Ntónie, e quindi a questo punto vi dovrebbe essere tutto chiaro. (N.B. se volete saperne di più su chi era questa Za Cummuare, cliccate qui).

La Fabreziare' - Un ramo della famiglia Fabrizio nei primi anni del '900. Nonna Maria è la ragazza in piedi, la prima a sinistra, con l'abito nero, in segno di lutto per la morte della della madre. Si occupò di lei il fratello maggiore Antonio che sposò Donna Emma Frasca, la levatrice acquilana, venuta occasionalmente a San Salvo per un parto nella famiglia di Don Oreste Artese, farmacista, persona tra le più benestanti di San Salvo.


Università degli Studi di Lentella
(Facoltà di Medicina)

Ho spledidi ricordi di quella casa lentellese del dottor Federico Bontempo, unico medico del paese. Stava anch'essa in Via Roma, a due passi dalla casa del sig. Gine lu ferrarille, che poi seppi che era il fratello di Evandro (Cianci) e di cumpuà Dionine, il marito di cummuare Terese, e questo spiega anche perchè vi ero capitato io.

A casa del dott. Bontempo, ci andavo a vedere la televisione.

Alle 4:00 in punto del pomeriggio, infatti, ero lì, puntuale. Quando la RAI iniziava le trasmissioni, andavo a trovare suo figlio Pietro, quasi mio coetaneo, e vedevamo la TV dei ragazzi. Alla sera, poi, ci tornavo spesso, una sera si ed un'altra pure, con i miei genitori per vedere il telegiornale. Dopo il telegiornale, e spesso e molto volentieri restavamo anche a cena, vedevamo tutti insieme Carosello, alle nove di sera. Poi tutti a dormire, ad eccezione del sabato sera, quando c'era qualche bella trasmissione.

Mio padre, lì imparò anche a fare il medico. Dopo il giro turistico per il paese, se ne andava a trovare il dott. Federico nel suo ambulatorio e lì parlavano di medicina. Per mio padre, non vi fu altro medico, per tutta la sua vita, di cui si fidasse cecamente; tantissima era la sua stima nei suoi confronti.

Lì, dentro quell'ambulatorio, parlavano di tutto: di come era fatto il cuore, il fegato, i polmoni, i calcoli renali, di quanto era lungo l'intestino, del perchè si incarnava un' unghia o nasceva lu turnadàte (il patereccio), lu vrugnaróle (l'orzaiolo). L'unica cosa che non mi piaceva era quando il dott. Bontempo, per spiegarsi meglio, gli diceva: "Evari'! Aspetta un attimo!". Usciva fuori dall'ambulatorio e se ne andava su al piano primo, ridiscendendo dopo un po' con un libro, in cui stavene artrattìte (erano ritratti) scheletri, coccie da morte (teschi) uomini spellati, insomma come stavamo fatti noi dentro e sapere che dietro la facciata umana si nascondevano quei mostri, detto sinceramente, un po' mi spaventava.

Una sera il dottor Federico gli disse: "Evaristo sai come nascono i bambini, come avviene il concepimento nell'utero... ". Mio padre gli fece: "Ssss!", portandosi il dito indice sulla bocca. Alzai il dito io. "Io lo so", dissi al dottore. Mio padre ingiallì. "E' come nascono?", mi chiese il dottore: "Li porta la cicogna", risposi. "Bravo!" esclamò mio padre. Dovetti aspettare altri vent'anni prima di capire come funzionava veramente il concepimento ed a dire il vero, a parte ciò che sanno un po' tutti, superficialmente, tra protozoi, dermatozoi, metazoi, antigrittogamici, peronospora della vita, sono ancora orfano in materia, diceva il mio amico Mario.

Poi dicono che i bambini dicono le bugie!

Il corso universitario, generalmente, finiva verso sera, quando arrivavano i primi pazienti, che aspettavano, pazienti, nella sala d'aspetto, che mio padre finisse i suoi corsi di medicina. Poveracci, sembravano avere tutti l'itterizia, ma non avevano la cirrosi epatica: era colpa di quel lampadario all'ingresso, che faceva una luce fioca e gialla, ingiallendo i loro visi.

Aveva ragione mio padre. Faceva davvero i miracoli il dott. Bontempo a Lentella. Erano quelli i tempi in cui l'ospedale di Vasto era lontano, e si pagavano anche le degenze. Il dott. Bontempo li curava tutti, o quasi tutti a casa, anche persone colpite improvvisamentre da ictus cerebrali, paralisi, o da altre gravi patologie, recandosi di persona, ogni giorno, nelle loro case e spesso nelle masserie.

Anche se mio padre, frequentandolo assiduamente, era diventato un mezzo medico (un mezzo infermiere già lo era avendo frequentato in gioventù un corso per fare le punture), la sua vera professione era quella di maestro elementare e dopo qualche mese me lo dimostrò di persona.



Foto scattata qualche anno dopo il racconto. Parenti in gita domenicale al Porto di Punta Penna a Vasto. Da sinistra Gilda Checchia, moglie di Mimì Napolitano, Lina Fabrizio, moglie di Virgilio Cilli, Lidia Fabrizio, moglie del dottor Federico Bontempo, mia madre Lidia Napolitano, mio padre Evaristo Sparvieri, il dott. Federico Bontempo con le mani poggiate sulle spalle del figlio Pietro, Virgilio Cilli e Mimì Napolitano, fratello minore di mia madre. L'altro bambino al centro indovinatelo voi chi era. Io lo so.



La scuola peripatetica "Averistotelica" lentellese

Come dicevo prima, erano quelli gli anni di Carosello e delle prime reclames televisive, così chiamavano all'epoca gli spot pubblicitari, ed i muri dei paesi cominciarono ad essere tappezzati anche di manifesti di prodotti commerciali di ogni tipo, insieme a quelli istituzionali del Comune, della Provincia, e di quelli dei partiti politici.

Vi era un muro a Lentella, all'inizio di Via Garibaldi, tappezzata di manifesti e lì, il pomeriggio, dopo il giro panoramico per il paese, mio padre si fermava e li leggeva. Gli interessavano i manifesti istituzionali ed anche quelli dei partiti, mentre io, a fianco lui, con la manina nella sua mano, guardavo i mammocci artrattite (ritratti).

E fu così che un pomeriggio all'improvviso mi fa: "Lo sai come si scrive una bella o".

"Bohhh" gli risposi, mai immaginando che il bicchiere non serviva solo per bere. "Questa è la o", e me la indicò su un manifesto con il dito. "E' uguale ad una palla", mi spiegò. Fraintesi un attimo non capendo a quale palla si riferisse.

Poi continuò: "Questa è la i con il puntino sulla i, questa è la a, che è come una o con una i attaccata a destra, ma senza puntino in testa, questa è la u che è come due i attaccate una dopo l'altra, ma sempre senza puntini sulla testa, e questa è 'na bella e come la e di Evaristo".

"E la f di fernando? gli chiesi per sapere se era bella come la e di Evaristo? E lui rispose: "Quella è una consonante, noi stiamo studiando le vocali. 'Na cose a la vo'", concluse.

Le vocali me le indicava sul manifesto a caso, così come gli capitavano sotto tiro. Il giorno seguente ricominciò: "Allora mi sai dire dove sta qua 'na bella o". Io guardai ed azzeccai. Bravo mi disse ed io mi impostai (fui orgoglioso di me stesso). Divenne una consuetudine il pomeriggio. Io cercavo di non sbagliare quando lui con il dito mi insegnava le vocali e lui mi diceva bravo. Poi fece lo stesso lavoro con le consonanti e ci volle un po' più tempo, specialmente con la mutolina h, che mi diceva si scrive ma non si legge. "Muahh", pensavo io, "se non si legge perchè devo leggerla?". Non ci capivo un acca, ma non gli dissi nulla per evitare discussioni.

Le consonanti che più mi piacevano erano la m con tre zampette, quella vera, però, pronunciata con la m di mela e non emme (che mi ricordava Emme de Mingaune), e pure la n con due zampette, pronunciata nghe la n n n (non so come fare per farvelo sentire per iscritto), e non enne, come chiamava Anna, la ripaltàse, la moglie de Pasqualicce a la piazze, che era di Mafalda. La consonante più odiosa era la c, che insieme alla a si leggeva ca e insieme alla i si leggeva ci e non chi. E qui cominciai a capire a cosa servisse la mutolina. Facile facile fu quando mi spiegò la cu: era come una o con una zampetta lunga e dritta, si scriveva così q, praticamente come una a, non con la zampetta argrecchéte, (rigirata in alto come un uncino), ma tirando dritto, sotto, fino a toccare l'altro rigo del quaderno a righe. La confusione regnò ancor più sovrana quando finalmente mi spiegò la f di Fernando, la L di Lidia, che era sua moglie, la s di Sparvieri, che era il suo cognome, e la z di zio Mimì, che era il cognato.  Furono davvero momenti complicati. La f si leggeva f, come la f di Fernando ma si chiamava effe, la L si leggeva L, come la L di Lidia, ma si chiamava elle, la s si leggeva s come la s di Sparvieri , ma si chiamava esse, e la z di Zio Mimì si leggeva z ma si chiamava zeta.

Altra lieve difficolta quando mi spiegò i verbi ausiliari e le preposizioni articolate. Con il verbo essere non avevo problemi, ma con il verbo avere sì. Sempre quella cazzo di mutolina. Il dubbio era: "Come scrivo: ai o hai?". Altro dubbio con l'apostrofo. Si scrive ce o c'è? Tiravo sempre un po' ad indovinare e spesso ci azzeccavo.

Praticamente solo la e di Evaristo, la a di Antonino, la i di Ianuccie lu macellare e la u di Uggénie lu sacrastane, si scrivevano e si leggevano come li aveva inventati Cristo, avrebbe detto Mastro Luigi di Iorio, il sarto. Per il resto era arabo, rendendomi conto del vero motivo per cui la lingua italiana dicono che sia tanto difficile.

E così, daje e 'rdaje (a furia di insistere), alla fine mi insegnò anche tutte le consonanti, in corsivo ed in stampatello, e poi ad unirle con le vocali per comporre le sillabe, e successivamente i verbi e qualche altra stupidaggine. Sorvolò un po' sulla matematica. "Adesso ti spiego i numeri arabi sui numeri arabi, ma sapevo giù contare fino a 30. Perciò mi insegnò le tabelline dell' 1, del 2 e del 3, le uniche che ricordo bene ancora oggi insieme a quella del 5, che imparai quando andai a scuola.

Ed ecco un bel giorno a sorpresa l'esame finale. Avevano appiccicato un bel manifesto nuovo, fresco di colla, addo' stave artrattate 'na bella zanzare (dov'era ritratta una bella zanzara). Mi fece una domanda trabocchetto. Io mi aspettavo che mi dicesse di leggere zan...za...ra. E invece no. Mi disse: "Vediamo se riesci a leggere questa parolina in stampatello: Ed io iniziai: "FFFF LLLL IIII TTTT... FLIT", esclamai. "Bravo", mi rispose e si mise a spiegarmi anche la chimica, di come era composto il TDT e poi di come funzionasse la macchinetta del Flit, che era meglio del petrolio per uccidere i pidocchi che morivano subito insieme alle mosche stecchite e poi venivano pestate con il piede e facevano ciak. serviva per uccidere i pidocchi ai bamini Orama' ave' sfeléte (Ormai avevo iniziato a leggere) e non mi avrebbe fermato più nessuno, fatta eccezione di quei 4 mesi di filone che feci a Vasto, quando divenni studente al Magistrale, dandogli una grossa delusione.

Sapete che mestiere voleva che facessi da grande? Naturalmente il maestro elementare? Mi diplomai con molte difficoltà molti anni dopo. Feci anche un concorso magistrale. Lo vinsi a primo colpo, ma finii per fare, con altra sua grande delusione, l'impiegatuccio comunale. Per poco non svenne quando glie lo comunicò ufficalmente la mia fidanzata. Io non ebbi il coraggio di dirglielo: aveva litigato con Do' Lelle, e temeva fosse una mossa per farlo ripaciare. Mi lasciò libertà di scelta, ma non ci ripaciò. Ma questa è un' altra storia, ed anche se non mi disse nulla, mo scuppave ncúrpe (stava per scoppiare dentro): mi sognava direttore didattico di Fresagrandinaria e Lentella.

Tornando ai pomeriggi lentellesi, gli unici manifesti che non mi faceva mai leggere erano quelli del partito comunista, che a Lentella, da quel che seppi da adulto, andava forte. Io ero attratto dal giallo di falce a martello su sfondo rosso. Io leggevo PCI. "No quasse lassele perde", mi diceva in dialetto. "Je' so' bianghe", mi diceva sempre, anche se io non riuscivo a capire come potesse piacergli un bianco manifesto inespressivo, rispetto a quelli con tanto rosso ed il giallo della falce e del martello. All'epoca lui e Do' Lello erano ancora grandi amici.

La scolaresca de la Uardióle nell'anno scolastico 1957-58. Il maestro a sin.era mio padre Evaristo Sparvieri. Il prete non lo so. Forse era il prete di Fresagrandinaria, nel cui territorio ricade C.da Guardiola.


Era un bravo maestro mio padre: sapàve lu fatte so' (era preparato). Era talmente preparato che alla mattina si preparava per andare a scuola a la Uardióle. Si metteva in testa una piroletta, così chiamava il suo basco nero con il pirolino, un bel cappotto pesante, che faciàve fucheje', cioè teneva caldo, du' chiapppétte pe le pénne (due mollette da bucato) sotto ai pantaloni, e con la sua bicicletta da maschio, a cui aveva applicato un motorino della Garelli, il famoso Mosquito, se ne scendeva a folle, per risparmiare miscela, fino a la Uardióle. Al ritorno, per non pedalare, accendendeva il Mosquito, ma gli piangeva il cuore, e tornava a casa per mangiare. Si era un po' ingrassato in quel periodo mio padre e diceva che era l'aria di Lentella,  ma secondo me erano che le félle (quelle fette) di mortadella, del negozietto di Za' Amalie. Anche mia madre divenne un po' cicciotella, e nel suo caso forse era veramente l'aria di Lentella, considerato che mangiava poca mortadella e non arrivò manco la cicogna.

Povera mamma, le feci passare i guai una mattina. Siccome ave' sfeléte (avevo iniziato)a leggere e scrivere, a mia insaputa, decisero di farmi frequentare la scuola. Forse parlarono con un maestro e mi tesero l'agguato.

La seguii tranquilla sino a scuola, ma quando mi accorsi della malaparata, cominciai a dare calci a destra e manca, come avevo fatto due anni prima quando mi portarono all’Asilo di Sanda Nicole a San Salvo. Non ci fu nulla da fare: riconquistai come due anni prima l’agognata libertà e rimasero per la seconda volta frecati.

Una bicicletta simile a quella di mio padre con il motorino Garelli applicato vicino ai pedali. I raggi della ruota posteriore erano rinforzati.  Notare il serbatoio della miscela sul portapacchi e vicino al fanale il portabollo in plastica. All'epoca le biciclette pagavano il bollo ed i carabinieri emettevano salate multe se non lo si aveva. Anche i carretti erano soggetti alla tassa di circolazione.



I più bei nomi di battesimo lentellesi
e Alfredo Bucciantonio, il prete

Ho bei ricordi di Lentella. Conobbi tanti bambini e persone, che ancora oggi, porto nel mio cuore. Alcuni di loro avevano nomi uno più bello dell'altro, addirittura più belli di quello di mio padre Evaristo, che in greco significa gradevole, di bell'aspetto. Si chiamavano Vivaldo, Sinibaldo, Vanni, Ebe (nome femminile), Servante, Osmero, Fusco, Genesio, Gesualdo, Icinio, Allegro.

E proprio in un allegro pomeriggio lentellese conobbi Alfredo Bucciantonio, il fratello maggiore di Federico, il futuro Sindaco di San Salvo negli anni '90, che seppi dopo che apparteneva a chelle de la milanìlle (famiglia discendente da Melanina), come il mio amico Osvaldo Menna, che non era un soprannome, ma il nome di battesimo in dialetto di sua nonna.

Era un bel giovanotto, Alfredo, quando lo conobbi io. A Lentella non era niente, manco consigliere comunale.

Faceva il prete. Ed era un bel prete, ci diciàve (stava bene con la tonaca), non proprio come Don Luigi, che all'epoca era il parroco di Lentella, ma quasi. Giovanissimo, con una tonaca nera, come indossavano tutti i preti quando io ero bambino, apparì improvvisamente sulla scena di un teatro parrocchiale, insieme a tanti ragazzi come lui e belle signorine. Era un attore nato, a Lentella.

E la gente, rideva. Era una recita in Chiesa, o lì vicino.

Sono trascorsi tanti anni e qualcosa non ricordo bene. Ciò che ricordo bene e che non dimenticherò mai, è che a Lentella c'era una quiete ed una pace da mattina a sera. Si sentivano, all'alba, il cinquettio dei passeri ed il frinire dei grilli e cicale, in un concerto quotidiano interrotto dai colpi di martello di qualche fabbro o falegname , in quella dolce mia primavera lentellese, che mi vide compiere cinque anni.

Era proprio bella la mia piccola Lentella.

Certe sere, ai Colli c'era la Luna piena, e la si poteva toccare con un dito, facendo un saltino tra le stelle, nel firmamento.

A scandire il tempo c'erano il rintocco delle campane e le corriere.

"Che ora è?", domandava qualcuno.

"Mo ha passate la poste de le cinghe" (Adesso è passata la corriera delle 17:00), gli rispondeva qualche altro.

"Muahhh! Mo me vede la lútema poste e dóppe me vaje a durmi’” (Muahhh. Adesso aspetto che passi l'ultima corriera e poi andrò a dormire).

Era l'ultimo svago per gli anziani lentellesi, ogni sera. 

Ed arrivo' anche per noi l'ultima sera.

Non aspettamo la corriera.

"Torniamo con il Mosquito", disse mio padre. Forse era tanta la nostalgia per il suo paese natio e per il suo mare, che aveva da lontano, tanto ammirati dalla Rupe.

Partimmo.

Mi fece sedere su un seggiolino, che stava agganciato al manubrio, e mentre mamma iniziò a camminare a piedi, accese il Mosquito, anche se era discesa, e partì.

Percorse alcune centinaia di metri e mi fece scendere: “Adesso tu continua a camminare a piedi sul ciglio della strada", mi disse. "Stai attento, che tra un po’ ritorno".

Rigirò il Mosquito e risalì la strada. Dopo un po’ lo vidi arrivare con mia madre seduta sul telaio. Mi superarono.

Poi lasciò mia madre più avanti e mentre mia madre proseguiva a piedi, tornò indietro a riprendere me.

Poi lasciò me e riprese mia madre.

Il sole primaverile era tiepido quando passai a piedi accanto al vecchio gessificio e dopo un po’ arrivammo al bivio.

Ero felice, ma in quel bivio, quel bel gioco finì.

"Evari'!", sentii una voce chiamarlo.

Era un collega di Fresagrandinaria, che si era fermato con una 600 blu, avendolo riconosciuto.

Andava a Vasto.

Dopo un po' fece salire me e mia madre sulla sua 600, e ci riportò a San Salvo.

Io seduto al sedile posteriore, lungo la discesa che conduceva al ponte del fiume Treste, ogni tanto mi giravo dietro, sperando di vedere mio padre, che come un corridore di biciclette, sbucasse veloce dopo ogni curva, seguendoci in discesa.

Non lo vidi.

Arrivò a San Salvo con un distacco di circa tre mezz'ora.

Il suo Giro d'Italia scolastico nelle frazioni dell'alto vastese in bicicletta, era terminato.

Vinse la sua ultima tappa Lentella - San Salvo.

Al traguardo eravamo ad appaludirlo io e mamma, per dirgli che aspettavamo con ansia il suo arrivo, e che non saremmo ripartiti mai più.

14 Ottobre 2021


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A Casale Monaci
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Quando San Vitale litigò con i parenti
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